Anche in occasione delle ultime elezioni politiche si è dibattuto sul ruolo della gerarchia cattolica e dei credenti nella vita pubblica.
P. Bartolomeo Sorge S.I., direttore di Aggiornamenti Sociali, ha dedicato al tema l’editoriale di maggio. A partire dai documenti del Concilio e del magistero successivo, ha puntualizzato alcuni aspetti importanti.
In primo luogo a chiarito i termini del problema e i criteri da tenere presenti.
a) I termini del problema - Quando si parla di «Chiesa» bisogna distinguere il duplice significato nel quale il termine viene usato. Nel linguaggio corrente, ci si riferisce anzitutto alla «Chiesa istituzione», costituita dal Papa, dai vescovi e dai sacerdoti, indicata anche con il termine di «Gerarchia» o di «Pastori». C'è però una seconda accezione, con la quale più esattamente si indica l'intera comunità dei battezzati (Pastori e fedeli laici insieme), unita nell'unico «Popolo di Dio». Pertanto, una cosa è il rapporto dell'istituzione ecclesiastica con la politica e un'altra, ben diversa, l'impegno politico dei fedeli laici, i quali, non meno dei Pastori, sono parte viva ed essenziale della Chiesa «Popolo di Dio».
Analogamente il termine «politica» può essere preso in un senso più ampio, come promozione socioculturale alla luce di una determinata visione dell'uomo e della società, oppure, in una accezione più ristretta, come «prassi» riferita all'attività dei partiti, del Governo, della Pubblica Amministrazione, ecc. In questo secondo caso ci si riferisce al programma delle cose da fare, alle opzioni concrete, che si pongono in termini più strettamente operativi, sulla base del mandato ricevuto o della carica ricoperta, che in una maniera o in un'altra si ispirano a una «cultura» o «filosofia» politica. I due modi di «fare politica» sono chiaramente articolati e intrecciati, ma, come vedremo, è importante non confonderli.b) I criteri da tenere presenti - Per quanto concerne il rapporto tra Chiesa istituzione e politica, il Concilio Vaticano II stabilisce un criterio fondamentale: «La missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine religioso» (Gaudium et spes, n. 42). Tuttavia - spiega - missione «religiosa» non significa affatto disinteresse per la realtà sociale, e in particolare per l'ambito politico; indica piuttosto la prospettiva specifica che la Chiesa ha nei confronti della politica, rimanendo sul piano di un'etica ispirata dalla fede e, nello stesso tempo, razionalmente argomentabile non solo per i credenti. In altre parole, poiché la fede illumina il discorso sull'uomo, la Chiesa istituzione, evangelizzando, compie un servizio che tocca la vita politica intesa come promozione di un modo di presenza nella società (fatto di atteggiamenti interiori, di elaborazioni concettuali e di comportamenti), che sta a monte di ogni ricerca di soluzioni operative.
Ne consegue che:
la Chiesa in quanto istituzione si autoesclude dall'intervenire direttamente nella prassi politica in senso stretto, partitico. Non perché questa sia qualcosa di sconveniente o di «sporco», ma perché, nella sua universalità, la missione religiosa non può divenire «di parte» come è proprio di ogni scelta politica. Precisa Benedetto XVI: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare» (Deus caritas est, n. 28).
Questo comporta una specificità del ruolo dei fedeli laici:
Se invece si prende la Chiesa nel suo significato di «Popolo di Dio», allora il criterio fondamentale da tenere presente è la distinzione, all'interno dell'unica missione evangelizzatrice, tra il ruolo dei Pastori e quello dei fedeli laici. Questi, a differenza della Gerarchia, sono chiamati a fare politica in tutte le sue accezioni, con l'«esclusiva» nei casi della «prassi» partitica e amministrativa. Detto in altre parole: nei confronti dell'attività politica militante la Gerarchia si autoesclude da ogni intervento diretto, tuttavia «mediante» l'annuncio e l'educazione alla fede contribuisce a «purificare la ragione» e a risvegliare le forze morali di quanti vi sono impegnati; invece il compito dei fedeli laici in politica è «immediato», essendo loro missione animare le realtà temporali. «Non spetta ai pastori della Chiesa - dice il Catechismo della Chiesa Cattolica - intervenire direttamente nell'azione politica e nell'organizzazione della vita sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei fedeli laici, i quali operano di propria iniziativa insieme con i loro concittadini» (n. 2442).
Tutto ciò porta a riflettere criticamente sia sulla ricerca di forme di privilegio da parte di esponenti della gerarchia nei confronti delle maggioranze di turno, sia sull’ossequio a buon prezzo che la politica presta alla Chiesa con il rischio di ridurre il cristianesimo a religione civile da strumentalizzare. Scrive a questo proposito Sorge:
Non si può negare, infatti, la tendenza di autorevoli esponenti della Gerarchia a trattare direttamente con esponenti politici e con istituzioni statali per fare valere le proprie ragioni. Ciò li induce talvolta a prendere posizione anche su questioni tecniche, che di per sé sono opinabili, appartengono all'ambito della «prassi politica» e sono motivo di divisione degli animi e di conflitto tra opposte fazioni. Simili casi di «supplenza» il più delle volte non sono giustificati da situazioni di grave emergenza; risultano, perciò, dannosi e controproducenti e finiscono con alimentare incomprensioni e conflitti non solo tra «cattolici» e «laici», ma anche all'interno della stessa comunità ecclesiale. Il rischio maggiore è che queste forme indebite di supplenza politica facciano apparire «confessionali» questioni che invece sono di natura squisitamente laica e civile. Come evitare questo grave equivoco?
I Pastori, certo, non possono tacere, ma devono parlare, insegnare ed esprimere giudizi anche su questioni sociali e politiche, offrendo il loro contributo per illuminare le intelligenze e formare le coscienze. Non si tratta, in questo caso, di «supplenza politica», ma di adempimento del proprio dovere pastorale. Accusarli, in simili casi, di «indebita ingerenza» è un deplorevole equivoco; esso nasce, per lo più, da mancanza di chiarezza di idee, ma spesso può essere favorito anche dall'assenza di un'azione politica competente e responsabile da parte dei fedeli laici. Se di fronte a scelte difficili i laici non intervengono e i Pastori sono gli unici a pronunciarsi, la loro presa di posizione, per quanto legittima e doverosa, rischia di apparire una forma di «interventismo». Tuttavia, dobbiamo dire che altrettanto grave e ambiguo sarebbe se i Pastori non respingessero con fermezza i tentativi insidiosi di quei fedeli laici che cercano (e facilmente millantano) l'appoggio della Chiesa a proprio vantaggio.
Penso, per esempio, alle posizioni di Pera e al recente discorso di Fini: a che cosa serve acconsentire alle tesi del papa sul rischio del relativismo per poi sorvolare sugli aspetti del messaggio cristiano che comporterebbero un radicale ripensamento di tanti assetti economici e sociali? Non è alla fine un consenso di comodo che non implica nessun impegno effettivo? E non ci sono forse altri valori accettabili nelle altre realtà religiose e laiche che ormai fanno parte del tessuto civile dell’Italia?