Scrive Enzo Bianchi in un recente articolo: L’«oggi» della vita ecclesiale, un oggi che riguarda a grandi linee gli ultimi quindici anni, è contrassegnato dal conflitto: la liturgia, che per sua natura vuole essere luogo di comunione e spazio in cui il Signore risorto e vivente dona alla sua comunità la pace («Pax vobis!»: Gv 20,19.21.26), è luogo di conflitto, di contrapposizione, di delegittimazione reciproca, di accuse proprie a una logica settaria e in ogni caso non conforme allo spirito del Vangelo. Tutta la chiesa ne soffre, è una chiesa «afflicta», per riprendere un’espressione del magistero, e in questa vera e propria situazione di aporia in cui molti non sanno cosa dire e cosa fare si registra una paralisi che non è conservazione della tradizione né preparazione di un futuro ecclesiale fecondo.
Ho già scritto di come recentemente, dalla comunità di Bose, sia venuto un richiamo sull'attuale situazione della Chiesa. Uno dei temi più delicati è certamente la liturgia, sulla quale il priore di Bose è intervenuto nell'articolo di cui ho riportato l'incipit (Jesus n. 6) e introducendo il Convegno internazionale su arte e liturgia tenutosi al monastero all'inizio di giugno.
Come mai il conflitto sulla liturgia? Perché ci sono dei piccoli gruppi, molto attivi soprattutto in rete, che cercano di delegittimare la riforma liturgica del Concilio e di ritornare al passato. La loro bandiera è un'idea di sacro inteso come separazione dal mondo e, in definitiva, come evasione. Bianchi lo evidenzia nel proseguo dell'articolo.
Ma chiediamoci: la liturgia che viviamo oggi nella chiesa, la liturgia voluta dal Concilio Vaticano II è in grado di essere il luogo, il sito in cui i fedeli possono essere soggetti della fede cristiana, capaci di sperimentare che cosa la fede permette di vivere, capaci di accogliere una speranza da offrire e proporre agli altri uomini? Oppure la liturgia è tentata di diventare un non-luogo, cioè uno spazio in cui gli uomini non vivono il loro oggi nell’oggi di Dio, in cui non trova accoglienza l’umanità reale, concreta e quotidiana, in cui si consuma un «sacro» che nulla ha a che fare con Gesù Cristo?
E' questo il punto! L'insistenza ossessiva di alcuni su determinate forme liturgiche, sulla lingua latina, su certi gesti e paramenti viene giustificata facendo appello alla sacralità. O meglio, a una certa idea di sacralità, secondo ci sono persone, luoghi, atti e parole separati dal mondo, attinenti alla sfera del divino e perciò immutabili.
Questa idea di sacralità crea di fatto una gerarchia, un vero e proprio potere sacro. Non è un caso che tanti giovani preti ne siano attratti. In un tempo in cui il prete "conta meno" nella società, il rifugiarsi nel sacrale costituisce una rassicurazione psicologica, dà un'identità, alimenta l'immagine di sé. Forse, vi sono vocazioni più funzionali a se stessi, alla gratificazione del proprio Io, che alla sequela del Signore.
La logica evangelica dovrebbe essere invece quella del servo inutile (Luca 17,10), della povertà di spirito (Matteo 5,3), di chi non cerca cose grandi e non si esalta perché è sereno come un bimbo svezzato in braccio a suo madre (Salmo 131). Tutto questo non lascia spazio all'idea che la liturgia (e implicitamente chi la celebra) stiano "al di fuori" e "al di sopra" del mondo, della vita, degli altri... Per Gesù, il sacro era altro, come ha spiegato Enzo Bianchi nella sua introduzione al Convegno L'arte a servizio della liturgia.
Si tratti di persone, luoghi, tempi, Gesù ha risolutamente abolito la separazione di un preteso sacro e di un preteso profano! («Situation du sacré en régime chrétien», in Y. Congar – J.-P. Jossua [a cura di], La liturgie après Vatican II, Cerf, Paris 1967, pp. 388-389). C’è di fatto in Gesù una critica al sacro dell’economia cultuale di Israele che si inserisce nella logica della tradizione profetica e che giunge a non riconoscere alcuna sacralità al tempio e ai suoi sacerdoti: tutta la sacralità si concentra sulla persona adorabile di Gesù il Kýrios.
Sì, in Gesù il «sacro» di tempi, luoghi, persone, azioni ha lasciato il posto alla santificazione di tutta l’esistenza. Gesù non ha rigettato il culto, né ha voluto una comunità a-rituale, una comunità che non conosce la liturgia e i suoi luoghi e i suoi tempi: l’uomo infatti non può vivere e umanizzarsi senza azioni simboliche, senza riti; non è possibile una fede in Dio, una relazione con lui senza segni esteriori, senza liturgia. Ma Gesù ha voluto che i riti, le liturgie fossero ispirazione e conferma della forma dell’esistenza del credente.
Battesimo, eucaristia, imposizione delle mani, preghiera appartengono all’agire di Gesù e sono costitutivi della chiesa, dunque assolutamente essenziali alla vita cristiana. Ma questi riti non bastano a se stessi, perché per essere salvifici devono originare un’esistenza cristiana «altra», santa, conforme a quella di Gesù e alla volontà di Dio. E infatti il giudizio di salvezza e di perdizione cadrà sull’esistenza umana, sull’ethos del servizio al prossimo, sul vivere o non vivere il comandamento nuovo di Gesù, il comandamento ultimo e definitivo (cf. Gv 13,34; 15,12).
La liturgia, allora, non è evasione del mondo, non è una realtà sovrumana. E' una realtà profondamente umana in cui i credenti fanno un'esperienza di incontro con Dio che si salda con la vita di tutti i giorni, che immette in essa un dinamismo nuovo. Per cui quell'incontro con Dio continua nell'esistenza quotidiana e plasma i pensieri e le scelte. Certo, non è un automatismo magico. Ci vuole un'educazione liturgica dei cristiani, ma anche una forma liturgica in cui trovi accoglienza "l'umanità reale e concreta".
Leggi l'articolo di Enzo Bianchi su Jesus 6 (2011) e la sua introduzione al Convegno liturgico internazionale 2011.