Il cardinale brasiliano Paulo Evaristo Arns, arcivescovo emerito di São Paulo, è morto mercoledì 14 dicembre. Aveva novantacinque anni. Era rimasto il penultimo cardinale creato da Paolo VI (l’ultimo a essere creato nel concistoro del 1977 è stato Joseph Ratzinger). «Ha consegnato la sua vita a Dio dopo averla dedicata ai fratelli» è il profilo che ne ha tracciato il cardinale Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di São Paulo. Tutto il Brasile ricorda oggi la sua statura e soprattutto la forza della sua voce nel periodo della dittatura militare e l'Osservatore Romano gli ha dedicato il profilo che qui riportiamo.
Da giorni ricoverato nell’unità di terapia intensiva nell’ospedale di Santa Catarina a San Paolo, a causa di una forte broncopolmonite e con problemi renali, il cardinale Arns è morto stringendo tra le mani la sua croce pettorale. Religioso dell’ordine dei frati minori, era nato il 14 settembre 1921 a Forquilhinha, nella diocesi di Criciúma. Ordinato sacerdote il 30 novembre 1945, era stato eletto alla Chiesa titolare di Respetta il 2 maggio 1966 e nominato vescovo ausiliare di São Paulo. Il 3 luglio di cinquant’anni fa aveva ricevuto l’ordinazione episcopale. Il 22 ottobre 1970 era divenuto arcivescovo di São Paulo. Nel concistoro del 5 marzo 1973 Paolo VI lo aveva creato e pubblicato cardinale del titolo di Sant’Antonio di Padova in via Tuscolana. Il 15 aprile 1998 aveva rinunciato al governo pastorale dell’arcidiocesi. Le esequie saranno celebrate venerdì 16 dicembre, alle ore 15, nella cattedrale. Il porporato sarà poi sepolto nella cripta.
Figura fondamentale nella storia della Chiesa brasiliana e latinoamericana, da tutti chiamato il «cardinale del popolo», Arns è ricordato per la sua spiccata personalità, per la determinazione nel porsi accanto ai poveri e agli oppressi, per la strenua difesa dei diritti umani. Quinto di quattordici figli, di cui due adottivi — con un fratello sacerdote e tre sorelle suore — aveva seguito da vicino la testimonianza di sua sorella Zilda, morta sotto le macerie del terremoto che ha colpito Haiti nel gennaio 2010: missionaria e pediatra, era anche stata candidata per due volte al premio Nobel per la pace. È proprio nella fede della sua famiglia che si riconoscono le radici dell’opera di Arns. «Mia mamma — ricordava — sapeva tutto il catechismo in latino a memoria e l’ha trasmesso così a noi figli».
Studioso, scrittore, giornalista, è stato autore di moltissimi libri che hanno favorito la riflessione e l’innovazione pastorale nelle diocesi. Frutto dei suoi interessi poliedrici anche una serie di documentati saggi sulla letteratura cristiana dei primi secoli.
È stato soprattutto il rappresentante di una Chiesa in prima linea nella difesa dei poveri. Il suo contatto fisso con gli ultimi e la semplicità della fede hanno caratterizzato il suo apostolato. La tenace perseveranza nella difesa della libertà del popolo e dei diritti umani, soprattutto durante il regime militare che in Brasile si è protratto dal 1964 al 1985, ha suscitato spesso incomprensioni e messo a rischio non poche volte la sua stessa vita. Ma è anche grazie alla sua presenza, alla sua riconosciuta autorità, all’azione ferma, coraggiosa e prudente, che in Brasile la dittatura militare cruenta ha lasciato il posto a un sistema democratico costruito senza spargimenti di sangue. Nel 1982 era stato l’unico religioso, in tutto il mondo, eletto nella commissione internazionale per le questioni umanitarie delle Nazioni unite. «Sono solo un povero vescovo, un uomo di pace e di speranza» aveva detto di sé.
Amico personale di Giovanni Battista Montini, lo aveva conosciuto quando era sostituto della Segreteria di Stato durante una sua visita in Francia. E ne aveva approfondito la familiarità nel periodo dell’episcopato a San Paolo. Così raccontava quell’esperienza: «Ricordo ancora con emozione l’abbraccio di Paolo VI nel ricevermi: mi accolse come un grande amico, con molta benevolenza. Si instaurò subito una grande confidenza. L’ambiente francese nel quale mi ero formato era familiare a Montini. Così da subito parlammo in lingua francese. Paolo VI parlava un ottimo francese, un francese classico». Della sua «benevolenza» amava ricordare un episodio: «Una volta chiesi al segretario un appuntamento, mi rispose che il Santo Padre era molto impegnato e che al massimo avrebbe potuto concedermi cinque minuti. Allora preparai un appunto scritto con tutto ciò che avrei dovuto dirgli e quando giunse il momento della visita dissi a Paolo VI: “Santità, mi hanno dato a disposizione solamente cinque minuti e così ho messo per iscritto i punti importanti”. Ma lui con mia sorpresa, sorridendo, rispose: “Eminenza, qui, chi comanda siamo lei e io”. E detto questo, mi condusse in una sala in fondo alla biblioteca dove nessuno ci potesse disturbare. Rimasi con lui cinquantacinque minuti. Ogni volta che potevo vederlo ero sempre molto, molto felice. Quando stavo con lui non c’era bisogno di dire molte cose, capiva tutto al volo».
I temi dei colloqui con Papa Montini erano concentrati sulla situazione del Brasile. «L’unica possibilità è che la Chiesa diventi missionaria» era la loro convinzione. Del resto, Arns non nascondeva il suo desiderio di andare in missione tra gli indios dell’Amazzonia, tanto che era arrivato a rifiutare tre volte, per iscritto, la nomina episcopale.
Poi, da arcivescovo, aveva subito venduto l’antico palazzo episcopale per cinque milioni di dollari, distribuendone il ricavato ai poveri, acquistando terreni per gli emigrati e i senza casa, e creando centri comunitari nelle periferie. Alla fine degli anni settanta aveva anche promosso il progetto Brasil Nunca Mais, denunciando e documentando i crimini della dittatura. Tanto che uno dei suoi primi atti da arcivescovo era stata la visita al famigerato carcere paulista di Tiradentes per portare ai detenuti la benedizione di Paolo VI. Aveva sostenuto i familiari dei prigionieri politici, aiutandoli nella ricerca di informazioni sui loro cari.
A São Paulo ha dato anche grande spazio all’apostolato dei laici, con l’obiettivo primario di promuovere «un nuovo modello di Chiesa, che vuol dire stimolare la partecipazione attiva di tutti i fedeli, attraverso una condivisione non solo spirituale ma anche materiale, creare comunità più coese e solidali, unite dalla lettura in comune della Bibbia e dalla preghiera collettiva, valorizzare l’apostolato dei laici, preparandoli a partecipare in modo attivo alla vita ecclesiale. Infine, dare spazio al dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale: esso può infatti aiutare a individuare strategie comuni per perseguire una liberazione economica, politica, culturale di tutti gli oppressi».
Il carisma francescano ha fortemente plasmato il suo stile di pastore. Dopo i corsi nelle case di formazione francescana in Brasile, frequentò la Sorbona a Parigi, dove si laureò a pieni voti in lingue classiche, presentando la tesi La technique du livre d’après Saint Jérôme. Ha poi approfondito lo studio su sant’Agostino e su san Bonaventura, seguendo corsi all’Istituto nazionale pedagogico e studiando letteratura antica all’Institut des Hautes Etuds.
Del periodo parigino ricordava «la nouvelle théologie, la riscoperta della patristica». Traduttore del primo volume della storia della Chiesa che Daniélou aveva scritto con Marrou, raccontava della sua assidua frequenza «alle conferenze di Maritain e Gilson per tastare anche il polso delle tendenze che si muovevano nella Chiesa». Ebbe a confidare: «Spesso ci incontravamo con Mauriac, di Claudel divenni amico. Andai a vedere tutte le sue opere teatrali. Con loro si parlava facilmente. Claudel amava l’opera di Charles Péguy e ne declamava i versi. Di Péguy mi piaceva soprattutto la grande epopea della speranza. Quando, più tardi, fui ordinato vescovo scelsi come motto Ex spe in spem, perché la speranza è tutto, è il sorriso della vita cristiana».
Prete dal 1945, approfondì gli studi per tre anni in Germania, per altri due in Inghilterra e quindi anche nei Paesi Bassi, in Belgio, negli Stati Uniti d’America e in Canada. Rientrato in Brasile, svolse un’intensa opera scientifica, insegnando lingua e letteratura francese all’università di Bauru e per dieci anni patrologia e storia della Chiesa al seminario francescano e all’università cattolica di Petrópolis, svolgendo allo stesso tempo il suo ministero sacerdotale in sette morros, le favelasintorno a Petrópolis. «Tra la gente delle favelas di Itamarati — ricordava — ho trascorso gli anni più felici della mia vita. Con loro stavamo semplicemente, condividendo gioie e sofferenze. Conoscevo le vicende di ciascuno, avevo stretto molte amicizie. Nell’ultima messa di saluto che celebrai all’aperto a Itamarati parteciparono quasi trentamila persone, una manifestazione di amicizia enorme. Avrei tanto voluto vivere lì».
Provinciale del suo ordine tra il 1961 e il 1966, fu direttore della rivista mensile per religiose «Sponsa Christi» e del centro editoriale francescano Vozes, che è uno dei più importanti gruppi editoriali cattolici del Brasile.
Divenuto vescovo ausiliare di São Paulo, si occupò in modo particolare della regione nord dell’arcidiocesi, «segnata dall’emigrazione di massa verso la grande metropoli, dove le speranze di lavoro lasciavano posto alla miseria, a condizioni di vita subumane». Con la consapevolezza che «non prendere la parte dei poveri significava tradire il Vangelo» e che «una nuova evangelizzazione non poteva che essere personale e sociale».
Sull’onda della seconda conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e caraibico, svoltasi nel 1968 a Medellín, promosse le comunità di base, viste come cellule per il rinnovamento dal basso del cattolicesimo brasiliano, riconoscendo anche un ruolo significativo alla teologia della liberazione.
Nel 1970 iniziò la sua missione di arcivescovo di São Paulo prendendo come programma l’enciclica Populorum progressio di Paolo VI: «custodire la fede, servire i poveri». Papa Montini conosceva bene la città di San Paolo per esserci stato nel 1962, da arcivescovo di Milano. «Fu in quella occasione — sottolineava Arns — che coniò la famosa affermazione: San Paolo è una testa altera con una corona di spine». Proprio per questo Paolo VI gli aveva chiesto «di visitare le diocesi delle grandi metropoli». Così ricordava quel periodo: «Andai a Parigi, Londra, New York, Chicago. Stilavo poi un resoconto riferendo al Papa su come i vescovi stavano lavorando. Nel 1975 mi chiese addirittura di elaborare un progetto di pastorale per le grandi città. In obbedienza alla sua richiesta lo feci, riflettendo in esso l’esperienza di collegialità di San Paolo».
Per tutta la vita, fino all’ultimo, ha continuato ad alzare la voce contro le ingiustizie, con denunce che hanno suscitato clamore. E nel 1992, nel pieno della Conferenza di Santo Domingo, è stato vittima di quello che lui ha sempre definito «un attentato»: venne investito da un auto riportando serie conseguenze.
Dopo essere divenuto arcivescovo emerito, si era ritirato in periferia «per lasciare campo libero al suo successore», ma non aveva smesso di predicare e di parlare, continuando tra l’altro a partecipare ai programmi della radio Nove de Julho, l’emittente cattolica che era stata chiusa dal regime militare. «Il momento principale della mia vita da pensionato — confidava — è la messa cantata che ogni giorno celebro nell’ospizio per anziani vicino alla mia casa».
L'Osservatore Romano, 15-16 dicembre 2016
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