La decostruzione dell’obbligatorietà del velo nell’islam è partita da uno Sheikh di Al Azhar - stranamente passata in sordina nel momento in cui fu annunciata - ed è tornata in questi giorni a scuotere l’opinione pubblica islamica proprio nel momento in cui più si assiste alla proliferazione dei veli. Proprio Al Azhar, la più prestigiosa istituzione islamica araba, aveva conferito con lode la tesi dello Sheikh Mustafa Mohammed Rashid sull’islamicità del velo o hijab, secondo la giurisprudenza.
La tesi dello Sheikh sottolinea che non è obbligatorio nell’Islam per una donna indossare il velo e ha dimostrato come l’interpretazione dei versi coranici distaccati dal contesto storico abbiano portato alla confusione e alla prevalenza di un equivoco sul velo. Quasi forzato, perché il Corano - ribadisce - non ha detto affatto che le donne debbano coprirsi il capo.
Certo, non tutte le donne musulmane portano il velo e non per questo si sentono meno musulmane, anche se devono combattere per questa loro scelta. Nella storia passata e recente, inoltre, lo Sheikh non è certo il pioniere di questi argomenti e non è il primo a scardinare alcune interpretazioni tutt’altro che sulla linea della parità di genere nell’Islam, ma c’è da dire che oggi l’esercito di teologi che iniziano a combattere una certa interpretazione letterale della teologia con la stessa arma della teologia, in chiave di Ijtihad (sforzo ndr), non sono più in ombra e le loro fatwa circolano velocemente nel web.
Tuttavia che il messaggio arrivi da Al Azhar ha un suo valore, e lo acquisisce ancor di più nella misura in cui viene letteralmente risuscitato fino a rimbombare nel web e nella stampa araba, in contemporanea allo sdoganamento dei veli nella moda, dove giovani musulmane, più modelle che modeste, truccate, si presentano con labbra gonfiate e occhi ammiccanti verso l’obiettivo ( la copertina di playboy con una modella velata è l’inizio), alla faccia del pudore, quello sì, consigliato a uomini e donne dal Corano.
La schizofrenia dei veli che stiamo vivendo oggi con il loro moltiplicarsi e perdersi, sia di modestia sia d’identità, nei Paesi musulmani o in Occidente, in realtà è il sintomo del suicidio stesso del velo. Inteso come un lontano simbolo, genuinamente portato con fede - intesa come fiducia - sul capo, nel significato più profondo di modestia e pudore da quelle antenate che si affidavano all’interpretazione maschile del verbo di Dio.
Il velo di oggi si perde tra la moda, l’identità e la politica, ma soprattutto perde la sua aspirazione, la sua genuinità, quella delle madri e delle nonne, cercando un compromesso con la modernità difficile da trovare. Oggi nel nostro Paese il capo coperto lo portano in tante ed è in aumento tra le seconde generazioni che in questi anni hanno ascoltato, nelle moschee o tra le mura di casa, la sola versione «dell’obbligo religioso» che ha indotto chi non lo porta a sentirsi in difetto. Si moltiplicano le storie di giovani musulmane nel nostro Paese che scelgono il capo coperto senza una piena e plurale consapevolezza del suo significato, ma ciò che più colpisce è che il deficit di consapevolezza investa anche le opinioni pubbliche. Non è accettabile continuare a pensare alla donna musulmana solo come una donna velata e dedicare i riflettori solo a essa. Non è accettabile raccontare i musulmani solo dietro il velo e l’Islam.
La battaglia sui diritti umani nelle società musulmane deve partire anche dal racconto della sua pluralità e dalla lotta per la loro emancipazione.
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