Sabato 12 ho partecipato, a Firenze, al seminario su etica civile e religioni, che fa parte del percorso preparatorio del II Forum di Etica Civile. Qui la prima parte del mio intervento
Non sappiamo niente dell’uomo, se non sappiamo riconoscerlo nella sofferenza. Mentre scrivo questo testo, continuano gli sbarchi e le morti lungo le rotte delle migrazioni, i quali non sono che un aspetto di un contesto globale fortemente problematico di cui fanno parte guerre e terrorismi, crisi economica e crescenti diseguaglianze economiche, inquinamento e cambiamenti climatici… Tutte queste dimensioni sono strettamente interconnesse. Le vittime degli sconvolgimenti sociali e ambientali sono persone, uomini, donne e bambini in carne e ossa. Sono azioni umane a provocarli, azioni il cui presupposto è un’antropologia, una visione dell’uomo. L’enciclica Laudato si’ – nella sua prospettiva di ecologia integrale che unisce dimensione ambientale e dimensione sociale – parla, a tale proposito, di un antropocentrismo deviato: «Quando l’essere umano pose sé stesso al centro, finisce per dare priorità assoluta ai suoi interessi contingenti, e tutto il resto diventa relativo» (LS, 122). È un vero e proprio individualismo sfrenato che impedisce di riconoscere l’altro e la sua sofferenza.
Dall’affermazione dei diritti al loro arretramento
Dopo la Seconda Guerra Mondiale sembrava che certi orrori non dovessero più ripetersi, come se quel tenebroso periodo fosse una sorta di lezione impartita dalla storia.
Infatti, è nel 1948 che raggiunge il suo culmine il processo di riconoscimento universale della nozione di diritti umani, quando a dicembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite promulgò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani secondo cui «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Si tratta di un lungo percorso che ha segnato la storia e il pensiero dell’Occidente, iniziato dopo la Guerra dei Trent’anni (1618-1648), in cui la religione ha giocato un ruolo rilevante, insieme ad altri fattori. Era possibile che uomini di fede e chiese cristiane animati da convinzioni profondamente diverse potessero coesistere e convivere senza combattersi? E come? La riflessione attorno a domande di questo genere ha interessato il giusnaturalismo di pensatori come Thomas Hobbes e John Locke con l’elaborazione della dottrina dei diritti naturali, inalienabili e inviolabili. Il passo successivo è costituito dall’illuminismo in cui soprattutto Immanuel Kant afferma il valore morale dell’individuo in quanto tale, indipendentemente dalle sue caratteristiche personali e sociali.
Norberto Bobbio parla di un capovolgimento radicale del punto di osservazione della riflessione etico-politica: «All’inizio, non importa se mitico, fantastico o reale, della storia millenaria della morale, c’è sempre un codice di doveri (o di obblighi), non di diritti. I codici morali o giuridici di tutti i tempi sono composti essenzialmente di norme imperative, positive o negative, di comandi o divieti. A cominciare dai Dieci Comandamenti, che sono stati per secoli il codice morale per eccellenza delle nazioni europee, tanto da essere interpretati come la legge naturale, la legge conforme alla natura dell’uomo. Ma si potrebbero portare innumerevoli altri esempi, dal Codice di Hammurabi alle Leggi delle XII tavole . (…) Affinché potesse avvenire il passaggio dal codice dei doveri al codice dei diritti occorreva che fosse rovesciata la medaglia: che si cominciasse a guardare il problema non più soltanto dal punto di vista della società, ma anche da quello dell’individuo»[1].
Un codice di doveri si fonda sulla legge quale regolazione dei comportamenti e della convivenza a partire da un principio ordinatore superiore (Dio o lo Stato) che mediante il suo rappresentante ha sempre la precedenza sul singolo. Questa idea risale all’antichità e si è riproposta periodicamente in forme diverse, tra cui l’estremizzazione che ne hanno operato i regimi totalitari.
L’idea opposta è che ci sia una sfera propria di ogni essere umano senza distinzioni, costituita appunto dai diritti, e che lo Stato (o chi per esso) non deve toccare. Deve, anzi, garantirla e promuoverla come suo compito precipuo. È così che si passa dall’essere sudditi a cittadini, a partire dalle grandi rivoluzioni che danno inizio alle democrazie moderne, quella americana e quella francese a cui appartengono rispettivamente la Dichiarazione d’indipendenza del 1776 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Dopo questi documenti, i diritti hanno cominciato a essere accolti nelle costituzioni.
Il fatto che questa elaborazione sia avvenuta principalmente in Occidente non è da ritenersi estraneo alla tradizione ebraico-cristiana, considerata la premessa necessaria della cultura dei diritti. Essa, però, sembra oggi smentita dai fatti. La minaccia del terrorismo fondamentalista si manifesta attraverso violenze e crimini che sembrano non avere limiti. Ma noi non subiamo solo un attacco esterno. Nel nostro quotidiano vediamo compiersi efferatezze ripetute e la nostra indifferenza permette la vendita di armi in paesi in guerra, lo sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente per il profitto di pochi (nel 2016 si stimano 129.600 schiavi in Italia, tra cui 10.000 bambini, e 48 milioni nel mondo), la tragedia del mare e i respingimenti, pregiudizi e intolleranza guadagnano in popolarità…
C’è una violenza attorno a noi e tra di noi che infrange ogni principio di diritti e dignità e i conflitti pubblici più accesi sono proprio quelli che riguardano l’interpretazione, l’estensione o la limitazione dei diritti nei confronti di varie categorie di persone (donne, poveri, omosessuali, stranieri, musulmani…).
Insomma, quasi 70 anni dopo il 1948 non possiamo dire che il riconoscimento e la condivisione dei diritti umani siano dei risultati certi e consolidati. L’umano ci appare una realtà fragile e minacciata.
[1] Norberto Bobbio, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1999, pp. 432-434.
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