di Massimo Faggioli in “international.la-croix.com” del 14 novembre 2016 (traduzione: www.finesettimana.org)
Una leggera maggioranza di cattolici americani (52% contro 45%) ha aiutato Donald Trump a conquistare la Casa Bianca. La Chiesa cattolica degli Stati Uniti deve fare i conti con questo dato di fatto. Gli studiosi futuri del cattolicesimo americano non saranno benevoli verso coloro che hanno reso possibile la vittoria di Trump. Tra questi annoveriamo il Partito Democratico, che ha candidato una persona che è sembrata (indipendentemente dal fatto che l'impressione fosse fondata o meno) politicamente indifferente, se non sprezzante, verso le preoccupazioni del cosiddetto “voto religioso” della nazione.
Il problema ora è come la Chiesa cattolica reagirà a questo terremoto politico – nelle sue relazioni con la nuova amministrazione, con un papa come Francesco che è molto più lontano da Trump del cattolico americano medio e, all'interno, con un paesaggio ecclesiale molto diviso. Quest'ultimo elemento è il più complesso perché avrà un impatto sul lungo periodo, anche dopo che Trump se ne sarà andato. L'elezione del nuovo presidente della Conferenza dei vescovi statunitensi questa settimana sarà solo un primo passo nel lungo processo di cercare di dare un senso a ciò che è appena successo nel paese.
Poco più di un anno fa, papa Francesco è andato negli Stati Uniti. Non è ancora chiaro quale sia stato l'impatto di quella visita straordinaria che aveva galvanizzato i cattolici americani. Sicuramente, non ha cambiato uno degli aspetti che caratterizzano il suo pontificato – e cioè il fatto che ci sono differenze di atteggiamento e di valutazione tra Francesco e i cattolici americani (compresi molti dei vescovi nominati da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI). Stiamo assistendo al ritorno di quello che gli studiosi di storia della Chiesa ricorderanno come “americanismo”, evidenziato nel 1899 da papa Leone XIII quando accusò la Chiesa USA di adattarsi troppo alla cultura politica americana. Ma per Francesco non si tratta semplicemente di un “problema americano”. Si tratta di “neoamericanismo”, problema a doppio risvolto riguardante sia la Chiesa universale che gli Stati Uniti.
In primo luogo, c'è la critica neo-conservatrice a Francesco. È l'aspetto più evidente del cattolicesimo “neo-americanista”, una critica ormai diffusa nel modo di pensare cattolico. Deriva da un punto di vista intellettuale, indipendente dalla teologia. La critica che l'americanismo cattolico tradizionalista-neoconservatore fa al papa non riguarda tanto la sua teologia, quanto la sua visione di Chiesa e il suo messaggio socio-politico. Francesco ha reso evidente la fine dell'allineamento ideologico tra il conservatorismo politico-religioso e la Chiesa cattolica, intesa come pilastro della civiltà europea e nordamericana. I neoconservatori lo accusano di costruire la sua popolarità a spese della Chiesa cattolica.
Il problema di fondo è che essi trattano questo prete gesuita proveniente dall'America Latina con un criterio diverso [rispetto ai predecessori]. Non ricordo che autonominati guardiani dell'ortodossia cattolica ponessero interrogativi sugli effetti collaterali della popolarità papale sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, o accusassero quei papi di eresia. Ma accusano Francesco di costruire la sua popolarità abbandonando o annacquando gli insegnamenti della Chiesa meno popolari (come quelli sulla morale sessuale e sul matrimonio, ad esempio). In questo modo, dicono, il papa sta dividendo la Chiesa. Come se i cattolici (compresi quelli americani) non fossero già divisi da almeno cinquant'anni sugli insegnamenti di morale sessuale della Chiesa.
Questo rivela la differenza tra il cattolicesimo nella visione di Francesco e il modo in cui i neoconservatori descrivono il ruolo della religione per le sorti della civiltà occidentale. Accusano il papa di mancare nella prova cruciale di mantenere una “chiesa forte”. Possono aver ragione nel senso che Francesco ha quasi riconosciuto che la forza sociale e politica della Chiesa cattolica romana è meno importante del fatto di essere cristiana, cioè di essere “simile a Cristo”. Se credete che il messaggio morale di Gesù Cristo in termini di misericordia, giustizia sociale ed inclusione dei poveri è troppo oneroso per la Chiesa cattolica, allora papa Francesco non è il vostro papa.
Ma c'è anche un secondo lato del neo-americanismo cattolico. È un cattolicesimo neo-americanista teologico ed ecclesiologico, di cui non si può far cadere la colpa su opinionisti e commentatori che sono teologicamente analfabeti. Tipico di questo cattolicesimo neo-americanista è la credenza che gli Stati Uniti siano una nazione eccezionale incaricata di una missione speciale. È una ecclesiologia esclusivista derivante da una teologia non cattolica (specificamente, deformazioni di calvinismo) che propugnano una Chiesa più piccola, più pura.
È anche una delegittimazione teologica della politica e dello stato, sostenuta sulla base di una interpretazione particolare (e opinabile) dell'ecclesiologia agostiniana della “Città di Dio”. Ed è una ipocrisia moralistica che si focalizza solo sui principi, e che implica un disinteresse per le conseguenze delle decisioni, che vengono assunte in nome di un rispetto puramente nominalistico dei principi morali. Abbiamo visto all'opera questi elementi nel modo in cui influenti settori della Chiesa cattolica degli Stati Uniti si sono preparati (o piuttosto, non si sono preparati) per le elezioni presidenziali del 2016.
C'era riluttanza ad impegnarsi e criticare la retorica neo-nazionalista e anti-internazionalista nella politica americana (specialmente se portata avanti da politici cattolici). Ci sono stati anche appelli da parte di alcuni vescovi influenti affinché dei cattolici lasciassero la Chiesa (un invito esteso particolarmente a politici cattolici del Partito Democratico). Sul problema dell'aborto abbiamo visto – questa volta più che nelle altre elezioni – che dei votanti (tra cui anche dei vescovi) sensibili ad un unico tema, quello pro-life, erano convinti di dover considerare soltanto ciò che un candidato diceva sull'aborto.
E c'era crescente popolarità di teologi che per decenni avevano detto ai cattolici che essere attivi nel processo politico poteva essere in contrasto con l'identità cattolica, contrariamente a ciò che dice la dottrina sociale della Chiesa sull'impegno politico. Questo problema è evidente in particolare a sinistra nello spettro politico dell'intelligentsia teologica cattolica. Quest'ultimo elemento appare particolarmente paradossale – dal “non expedit” emesso dai papi alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo contro la partecipazione dei cattolici al processo politico democratico al “non-expedit” espresso da teologi cattolici laici in chiara dissonanza rispetto al messaggio sociale e politico di papa Francesco.
La Chiesa cattolica negli Stati Uniti d'America è una delle più vivaci nel mondo e ha un ruolo guida. Ma attualmente è affetta da diversi malanni. C'è il problema della polarizzazione politica e culturale all'interno di questa Chiesa, di divisione tra vescovi e fedeli cattolici, di relazioni tra papa Francesco e segmenti di cattolicesimo americano. Segmenti che non comprendono solo vescovi, ma anche teologi americani, università cattoliche e associazioni di laici organizzati come i Cavalieri di Colombo.
Trovare un equilibrio tra l'interpretazione universale (cattolica) del cattolicesimo e la sua necessaria incarnazione locale-nazionale è un problema che si ripropone e che ogni cattolico nel mondo deve affrontare, consapevolmente o inconsapevolmente. Ma in questo momento storico, alla luce dell'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, mi sembra che il futuro della Chiesa negli Stati Uniti dipenderà dalla scelta di fondo tra essere una Chiesa cattolica romana in America o una Chiesa cattolica americanista. E, a mio avviso, è un problema urgente e drammatico per i cattolici in questo grande paese.
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