C’è un bel testo del poeta libanese Kahlil Gibran, che fa parte della sua opera Il profeta, in cui è spiegato bene quello che è anche il senso del messaggio biblico sui figli.
E una donna che stringeva il bimbo al petto disse:
Parlaci dei figli.
Ed egli disse:
I vostri figli non sono i vostri figli.
Essi sono i figlie e le figlie del desiderio che la vita ha di se stessa.
Essi arrivano grazie a voi, ma non da voi,
E sebbene siano con voi, non vi appartengono affatto.
Perché essi posseggono i loro pensieri.
Potete dare una casa ai loro corpi, ma non alle loro anime,
Perché le loro anime hanno dimora nella casa del domani, che voi nemmeno in sogno potete visitare.
Potete sforzarvi di farvi simili a loro, ma non pretendete di renderli simili a voi.
Poiché la vita non va all’indietro né indugia su ciò che è stato.
Voi siete come archi da cui i vostri figli, frecce viventi, vengono scoccati.
L’Arciere vede il bersaglio in vista dell’infinito e ci tende con la Sua forza affinché le Sue frecce vadano veloci e lontane.
Detto altrimenti: i figli non ci appartengono, non sono una nostra proprietà o un nostro riflesso. Sono l’irruzione di una novità che ci supera e della quale non possiamo disporre, perché così è la vita: si protende dal passato verso un domani che non è predeterminato dai nostri progetti. E così è nella Bibbia. Possiamo prendere ad esempio tre figli che sono altrettante “sorprese di Dio”: Isacco, Samuele e Gesù. Senza l’intervento del Signore non sarebbero arrivati. Il che ci dice che la nascita di un figlio è un evento che spetta a noi genitori accogliere, ma che non dipende interamente da noi.
Un’idea del genere è in contrasto con una certa mentalità oggi diffusa, secondo la quale i figli, più o meno consapevolmente, costituirebbero la gratificazione di un nostro desiderio e sarebbero perciò funzionali a noi. La stessa mentalità spiega anche, al di là delle difficoltà economiche e delle carenze di servizi che comunque ostacolano molti nel diventare genitori, il diffondersi di una cultura per cui per tanti un figlio costituisce un peso, una limitazione della propria libertà. Il punto non è che avere un figlio debba essere un obbligo o l’unica condizione per una vita riuscita. Il punto è in che misura nella nostra vita siamo disposti a fare veramente spazio a chi non appartiene alla sfera del nostro ego: alla radice, è questo ciò che accomuna tutte le forme di amore.
E dare spazio all’altro significa anche saperlo lasciar andare quando è il momento, lasciargli la sua libertà. Un passaggio che nel rapporto con i figli deve arrivare sempre, a meno di non fissarsi in rapporti malsani e opprimenti. Deve valere per noi, che siamo figli di qualcuno a nostra volta, così come per loro. Proprio del padre di Abramo, Isacco, Genesi 12,1 ci dice che la chiamata di Dio con cui inizia la sua storia di fede comporta un distacco dalla sua famiglia d’origine:
Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e della casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò».
Per dare inizio a una storia nuova, a una propria storia, Abram deve prendere le distanze da chi è venuto prima di lui. Ricordo che il “vattene” del testo, in ebraico lek lekha, può essere anche tradotto come “va’ verso te stesso”; come a dire che per trovare la verità di se stesso, la propria autentica identità, Abramo deve compiere questo passo di presa di autonomia e la nascita del figlio Isacco appartiene appunto al nuovo cammino che intraprende.
Ma dopo aver lasciato suo padre, a un certo punto deve anche imparare a lasciar andare il figlio. Il racconto, per molti versi scandaloso, del cosiddetto “sacrificio di Isacco” (cfr. Gen 15,1-19), in cui Dio chiede ad Abramo il sacrificio del suo unico figlio, può essere letto anche in questo modo, come fa il biblista André Wenin: «Nella prima parola che apre la storia di Abramo, Dio gli ordina di lasciare un padre descritto precedentemente come possessivo e fusionale con i suoi per vivere la sua avventura personale, invece di restare chiuso nella “casa di suo padre”. Ora, Dio parla ad Abramo di “suo figlio”, sottolineando che sa come gli sia attaccato, poiché dice di Isacco “tuo figlio, il tuo unico/unito, che tu ami”. L’aggettivo qualificativo che Dio utilizza (yahid) evoca il fatto che Isacco è “unico” agli occhi di suo padre e nello stesso tempo che è “unito” a lui – forse ancora più unito in quanto unico, come sembra sottolineare il ricorso a un termine ebraico che permette questo gioco di parole» (A. Wenin, Le scelte di Abramo. Lasciare il padre, lasciar andare il figlio EDB, pp. 29-30).
Come è noto, Dio ferma la mano di Abramo prima che il sacrificio si compia. Le interpretazioni del racconto sono state molte nel corso dei secoli, e non univoche, ma adottando la prospettiva di Wenin potremmo dire che il salto della fede richiesto ad Abramo è quello di credere che la vita e il bene del figlio Isacco non dipendono da lui, per cui deve saperlo affidare a Dio e a un futuro che non domina. Similmente, Anna offre il figlio Samuele come consacrato al Signore accettando di separarsi da lui (cfr. 1 Sam 1,11) e Maria è costretta a misurarsi con il fatto che Gesù, quel figlio non atteso, dovrà occuparsi delle cose del Padre allontanandosi da lei (cfr. Lc 2,49).
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