A trent'anni dalla morte di Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino e figura importante del post-concilio, lo ricorda il convegno "Memoria del futuro" al monastero di Bose (8-9 ottobre 2016). Per presentarlo brevemente, riporto un articolo di CARLO OSSOLA (dal "Sole 24 Ore" del 9 ottobre 2011), il quale sarà relatore a Bose, che recensisce un suo libro di conferenze patristiche aiutando a capire come, al di là di polemiche e letture distorte, Pellegrino fosse profondamente radicato nella tradizione della chiesa. Il libro è Michele Pellegrino, "Il popolo di Dio e i suoi pastori" (Effatà).
Michele Pellegrino, professore di "Letteratura cristiana antica" nell'Università di Torino, fu nominato da Paolo VI nel 1965 arcivescovo di Torino e poi cardinale nel 1967. Negli anni del suo episcopato, sino al 1977, il professore divenne pastore sul modello dei Padri della Chiesa, fervido nell'applicare il Concilio e nell'aprire la chiesa torinese alle istanze di rinnovamento e al dialogo con la società, in particolare con gli immigrati, i poveri, gli esclusi.
Fondò, per avere un clero maturo e all'altezza dei tempi, un seminario delle vocazioni adulte, lasciò ampio spazio all'esperienza dei preti operai e alle comunità di base, incoraggiò la diaspora missionaria, amico com'era del "vescovo delle favelas" Hélder Câmara. In una diocesi che conosce un'importante comunità riformata, i Valdesi delle valli del Pinerolese, fu altresì promotore del dialogo ecumenico. Segno eminente di quest'attività sono le lezioni inedite, che verranno presentate domani, tenute dal cardinale, nel 1979, su invito di François Bovon e della "Faculté autonome de Théologie protestante" dell'Université de Genève, sul tema: Le peuple de Dieu et ses pasteurs dans la patristique latine.
Il soggetto venne accuratamente scelto e affinato – da François Bovon e da Michele Pellegrino – nell'intento di trovare al dialogo ecumenico un terreno storico, piuttosto che dottrinale, di meditazione, utile all'una e all'altra confessione, al fine di riscoprire – presso i Padri della Chiesa – la radice e il nutrimento atti a incrementare quella speciale "sollecitudine" per il popolo di Dio che i documenti del Concilio Vaticano II avevano rilanciato, e che costituiva una delle linee pastorali più continue della tradizione riformata.
Il momento per un avvivarsi del dialogo tra confessioni cristiane era particolarmente propizio, tanto nella vita del Cantone e Repubblica di Ginevra che nell'ambito della sua Università. Sebbene infatti, dopo la Riforma calvinista, il vescovo cattolico non vi risiedesse (né vi risieda oggi: la diocesi di Ginevra è ancora riunita a quella di Losanna e di Friburgo, con sede episcopale a Friburgo), la vivace immigrazione portoghese, spagnola e italiana, nei comuni limitrofi a Ginevra (Onex, Le Lignon, eccetera, senza contare la storica "enclave" di Carouge) aveva in quegli anni determinato una sostanziale parità di foyers riformati e cattolici nella popolazione. In molte parrocchie cattoliche la messe des familles domenicale era aperta alla condivisione, e alcuni pastori riformati avevano creato piccoli gruppi di riflessione ecumenica. Il "disgelo" era certo favorito dal clima creatosi nella Facoltà di Teologia protestante, particolarmente durante gli anni del decanato di François Bovon; ma anche nella contigua Facoltà di Lettere, grazie all'illuminata presidenza dello storico contemporaneo Jean-Claude Favez (che diverrà poi Rettore della stessa Università).
Del resto ivi insegnava dal 1971 – per la filosofia moderna e contemporanea – il Père Georges Cottier, domenicano e specialista di Marx e del pensiero filosofico del XIX secolo, la cui luminosa sapienza sarà più tardi coronata dalla nomina – durante il pontificato di Giovanni Paolo II – a Maestro del Sacro Palazzo, e cardinale. Egli fu presente alle lezioni di Padre Pellegrino e ha rilasciato una commossa testimonianza di quegli incontri.
Aleggiava a Ginevra – nell'eredità dell'erudizione conciliatrice dell'archeologo e storico delle religioni Waldemar Deonna, e nella presenza della sensibile spiritualità di Jean Rousset, traduttore di Silesio e autore di una luminosa antologia della poesia barocca francese, aperta alle istanze metafisiche e mistiche, nonché dell'appassionata quête di Roger Dragonetti, cui si deve la splendida monografia dantesca Pèlerin de la Sainte Face – un'idea di letteratura come territorio di un'ulteriorità che appella e non semplicemente "sta nelle descrizioni" che il discorso critico può tessere: a tale ulteriorità Jean Starobinski non cessava di conferire ragioni. E Padre Pellegrino seppe interpretare quelle istanze, con semplicità e con forza, proponendo come modello sant'Ambrogio, vescovo di Milano, che predicava «lo spirito e la pratica della povertà, il disinteresse sino a "rinunciare a rivendicare i propri diritti nei riguardi di altri, anche se si è sicuri di vincere la causa"», oppure additando l' esempio di Massimo di Torino, quando «il vescovo richiama il significato della vita presente che non è data "per il riposo, ma per il lavoro"».
La sua era una chiesa fatta per servire e non per comminare. Quando si guardi dall'oggi a quella stagione – la cui fioritura sembra così lontana e quasi irripetibile – risalta subito l'idea unificatrice di "popolo di Dio": che sarebbero le chiese tutte, senza quello sciamare di popoli in cammino? Senza lievito e senza sale della terra? Senza la voce degli ultimi che chiedono cittadinanza e giustizia? Tutto questo si visse in modo così traboccante che persino la recente denuncia di Hans Küng sui limiti della chiesa presente è pallido progetto rispetto a ciò che unì allora gli uomini di buona volontà: il "principio speranza".
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