SILVIA GUIDI, L'Osservatore Romano, 7 settembre 2016
«David Foster Wallace è uno scrittore difficile — scrive Martina Testa nella prefazione del libro Verso Occidente l’impero dirige il suo corso, (Roma, Minimum Fax, 2001) da lei tradotto — ed è anche un grande, grandissimo scrittore. Le due cose non sempre vanno di pari passo. Ma nel suo caso sì. David Foster Wallace è uno che scrive in maniera sofisticatissima, complessa, perfino ostica in certi casi, e che in questa maniera ha scritto opere esemplari della narrativa americana contemporanea; che ha creato, con il suo Infinite Jest, quello che viene quasi unanimemente considerato un capolavoro». Foster Wallace, continua la traduttrice «è a mio parere uno che meriterebbe di finire, fra qualche decina d’anni, nelle storie della letteratura e nelle antologie per i licei. Se e quando Wallace finirà nelle antologie per i licei, le pagine dedicate ai suoi brani saranno di quelle con poche righe di testo e lunghissime colonne di note di commento».
Se e quando, precisa Martina Testa. Il riferimento alla scuola è interessante; fa capire che non si tratta solo di una querelle di estetica letteraria. E fa tornare in mente l’appassionato appello a non rinunciare alla complessità nella didattica, lanciato da Paola Mastrocola sulle pagine del «Sole24ore», qualche mese fa, e al dibattito tuttora in corso su un progetto di riforma del liceo classico in Italia che rischia di gettare via il bambino, oltre all’acqua sporca, perché chi semplifica toglie consapevolmente il superfluo, ma chi banalizza toglie inconsapevolmente l’essenziale. Ai ragazzi, in realtà — come sa bene chi insegna — piacciono le sfide ambiziose. E non solo alla playstation, anche in classe. Nella maggior parte dei casi accettano di buon grado di impegnarsi per raggiungere qualcosa di nuovo e interessante, se qualcuno di cui si fidano gli fa capire che ne vale la pena.
Il caso di dfw è emblematico; ancora molto giovane, pur essendo ostico, raffinato e complesso come pochi, diventò un autore di culto, una sorta di rockstar della letteratura. A otto anni dalla sua morte, le sue opere sono sempre più conosciute e amate in tutto il mondo; il film su di lui, The End of the Tour (James Ponsoldt, 2015) è «una conversazione di cinque giorni che non vorresti finisse mai», si legge nei siti di cinema americani, mentre gli appassionati continuano a pubblicare manuali per neofiti, scaricabili online, in cui si aiutano i lettori a orientarsi nel mare magnum dei suoi scritti con lessici ragionati, indici, elenchi di luoghi e personaggi.
Chi ha letto anche uno solo dei libri di Foster Wallace sa che la sua prosa è un affascinante, talvolta sconcertante inabissarsi nella complessità, che sfida costantemente il lettore a non fermarsi alla superficie delle cose, a lasciarsi guidare alla scoperta delle meraviglie che si nascondono in un campo di granturco del Midwest apparentemente uguale a mille altri o nei pensieri di una persona stanca e annoiata in fila alla cassa di un supermercato all’ora di punta. Il tutto, riempiendo all’inverosimile la pagina di citazioni, allusioni, rimandi interni, dialoghi diretti con il lettore, digressioni, note, sottonote, spiegazioni che all’autore non sembrano mai abbastanza precise e mai abbastanza precisamente documentate. Cercava la complessità, scrive Don De Lillo, perché «voleva reggere l’urto della vasta, farneticante, ingovernabile onda della cultura contemporanea». Per questo nei suoi libri il tennis, la musica rap o le serie televisive e gli spot pubblicitari hanno lo stesso diritto di cittadinanza di una serrata analisi dei meccanismi comici in Kafka o di un saggio sul senso religioso in Dostoevskji.
In una cultura che priva quotidianamente della capacità di usare l’immaginazione, il linguaggio e il pensiero autonomo, una complessità come quella di Foster Wallace è un dono, notava acutamente Zadie Smith introducendo Brevi interviste con uomini schifosi, una galleria iperrealista di psicopatici atrocemente “normali”. «Le sue frasi ricorrenti, meandriche — continua Smith — richiedono una seconda lettura. Al pari del ragazzino che aspetta di tuffarsi, la loro complessità spezza il ritmo che esclude il pensiero. Ogni parola che cerchiamo sul dizionario, ogni tortuosa nota che seguiamo a piè di pagina, ogni concetto che mette a dura prova cuore e cervello: tutto contribuisce a spezzare il ritmo dell’assenza di pensiero. E ci vediamo restituire i nostri doni».
La forma è sempre sostanza, per Foster Wallace. E il suo stile barocco e caparbiamente meticoloso non è solo l’esito di un perfezionismo ossessivo — che, pure, è presente in qualche pagina della sua produzione minore — ma è, soprattutto, la conseguenza di un forte, mai sopito imperativo etico: «la verità di me è quello che cerco».
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