Martedì 27/09 ho tenuto ai preti della diocesi di Crema la relazione "Vivere la sinodalità: prospettive dopo Firenze" scandita su quattro momenti: "Sinodalità - Si puo fare?"; "Perché? Le motivazioni della sinodalità"; "Come? Le azioni della sinodalità"; "Che cosa? Proposte di sinodalità". Presento qui la seconda delle quattro azioni della sinodalità, il consigliare.
L’esercizio dell’ascolto richiede, di pari passo, che venga praticato il consiglio a cui sono finalizzati i nostri organismi di partecipazione (i quali sono tutti “consigli”) e che costituiscono il primo livello di sinodalità. «Dopo aver richiamato la nobile istituzione del Sinodo diocesano, nel quale Presbiteri e Laici sono chiamati a collaborare con il Vescovo per il bene di tutta la comunità ecclesiale, il Codice di diritto canonico dedica ampio spazio a quelli che si è soliti chiamare gli “organismi di comunione” della Chiesa particolare: il Consiglio presbiterale, il Collegio dei Consultori, il Capitolo dei Canonici e il Consiglio pastorale. Soltanto nella misura in cui questi organismi rimangono connessi col “basso” e partono dalla gente, dai problemi di ogni giorno, può incominciare a prendere forma una Chiesa sinodale: tali strumenti, che qualche volta procedono con stanchezza, devono essere valorizzati come occasione di ascolto e condivisione» (Francesco, 50° del Sinodo).
Il bisogno di partire “dal basso” si ricollega all’esigenza di un ascolto autentico, ma richiede anche una consapevolezza formata rispetto al consigliare, per non far sì che i consigli e gli altri momenti di dialogo non si riducano a “sfogatoi” dei propri malumori, senza sbocchi costruttivi. C’è una riflessione interessante di Carlo Maria Martini che rilegge la trattazione del consiglio fatta da Tommaso d’Aquino in STh II-II, qq. 47-52. La capacità di ben consigliare è un’applicazione della virtù della prudenza, che per Tommaso non è il procedere con il freno a mano tirato come spesso pensiamo, ma la coniugazione di ratio speculativa e ratio pratica per giungere a decisioni effettive. Tommaso associa le virtù ai doni dello Spirito (dono del consiglio, appunto) e alle beatitudini evangeliche. La beatitudine corrispondente al dono del consiglio è la misericordia, in quanto le opere di misericordia sono particolarmente indirizzate al fine della salvezza.
«Poiché la virtù della prudenza e il dono del consiglio intuiscono il rapporto tra i mezzi di salvezza e il fine, la quinta beatitudine evangelica è la più attinente ad essi. Dal pensiero di San Tommaso traggo due conseguenze: prima, che effettivamente il dono del consigliare nella Chiesa deve essere anzitutto attento ai poveri, alle opere di misericordia. Seconda, che il consigliare stesso è opera di misericordia, di compassione, di bontà, di benignità; non è opera di fredda intelligenza, di intuizione molto elaborata, ma fa parte della comprensione del cuore» (C.M. Martini).
Da questo rapporto discendono alcune conseguenze: il consigliere nella Chiesa deve avere la comprensione amorevole delle complessità della vita in genere e della vita ecclesiastica in specie, con le sue miserie, che richiedono di saper applicare la gradualità; essendo dono, il consiglio va richiesto nella preghiera e non si può presumere di averlo; il consigliare è il momento dell’indagine e della creatività non esprimendo in prima battuta il parere che affiora alla mente, bensì indagando sulle situazioni, condizioni, soluzioni già date in altri luoghi; nel consigliare è in gioco la contemplazione del volto di Gesù e del volto della Chiesa a cui si tende.
Sono brevi cenni che spero non risultino eccessivamente astratti, ma che mi sembrano puntare chiaramente in una direzione ben precisa: l’esercizio del consiglio, soprattutto negli organismi di partecipazione, è attività delicata e preziosa che richiede tempo, preparazione e dedizione. Troppo spesso l’essere membri di un consiglio è attività che viene incastrata in mezzo a tante altre (per non parlare di quando si è dentro più consigli) e che si risolve nell’alzare le mani al momento di una votazione. Ci vorrebbero invece (almeno nel consiglio pastorale diocesano, in quelli zonali e nelle parrocchie più grandi) persone il cui servizio ecclesiale consistesse, per la durata di un mandato, esclusivamente in questo che è un vero e proprio ministero da esercitare soprattutto prima e dopo le sedute vere e proprie con responsabilità effettive. Già questo sarebbe un modo per cominciare a dare spazio a figure laicali riconoscibili e significative che svolgendo un servizio del genere si formano e maturano sensibilità ed esperienza ecclesiali. In alcune diocesi già accade e per esempio il segretario del CPD non è un figura solo “notarile”.
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