di GOFFREDO BOSELLI, in “L'Osservatore Romano" del 19 agosto 2016
Occorre riconoscere che il modo di vivere e di credere di un cristiano in una società secolarizzata, dove Dio è assente, è quanto mai diverso dal vivere e credere all’interno di una condizione di piena cristianità, dove la religione strutturava il vivere comune e definiva i comportamenti, dove Dio era un’evidenza e rendergli culto una pratica. Al contrario, i cristiani che appartengono a una società secolarizzata devono oggi saper sostenere la differenza tra le loro scelte di vita fondate sulla fede e i comportamenti diffusi, tra i valori del Vangelo e l’ethos comune dominante. Così, credere in un tempo di indifferenza religiosa significa compiere una scelta pienamente libera ma del tutto priva di un contesto sociale che la sorregga, di un ambiente che la condivida e di una comunità civile che la rappresenti. Pertanto, la condizione dei cristiani che vivono oggi nelle società occidentali sta sempre più divenendo una condizione paradossale: vivere alla presenza di Dio nella sua assenza sociale.
Ecco il compito primario della liturgia nell’età secolare: rendere presente Dio in una società senza Dio, essere la sua epifania in mezzo agli uomini. Se in passato i segni della presenza di Dio si potevano scorgere ovunque, nel re come nella legge, nella cultura come nell’arte, oggi il segno più eloquente e in certe situazioni perfino l’unico che rende Dio presente in un luogo è la comunità riunita in preghiera nel giorno del Signore. Lo sono in particolare quelle piccole e povere comunità cristiane che vivono isolate in realtà periferiche, talvolta anche prive di pastore. Nell’età secolare la presenza e la visibilità di Dio nel mondo sono la sua comunità che lo celebra e lo confessa. «Voi siete miei testimoni — parola del Signore — e io sono Dio» (Isaia, 43, 12), il midrash Sifre Rabbah è incredibilmente denso su questo versetto di Isaia: «Ossia, se voi siete miei testimoni io sono Dio, e se voi non siete miei testimoni io, per così dire, non sono Dio». Altrove la tradizione rabbinica ha così interpretato: «Se voi non mi confesserete, dice il Signore, io non esisto».
La tradizione ebraica ha posto questo modo di concepire la condizione di esistenza di Dio nella storia in relazione alla rivelazione del Nome stesso di Dio: «Io sono colui che sono» (Esodo, 3, 14). Dio rivela che egli è, ma la sua esistenza, cioè il suo esserci nel mondo, dipende dalla confessione che Israele farà del suo Nome santo. Si può dunque affermare che l’età secolare ricorda alla comunità cristiana che il primo compito della liturgia è di essere invocazione della presenza di Dio nel mondo. Ricorda che la liturgia ha il compito di far prendere coscienza ai credenti e ai non credenti che il Dio di Gesù Cristo non impone la sua presenza, ma la sua esistenza nel mondo è sospesa alla confessione di chi ha fede in lui. È un Dio che non vuole essere decisivo nella storia ma si offre alla decisione dei credenti in lui per la storia del mondo.
Dio stesso ha fin dall’origine rinunciato a essere necessario all’uomo costringendolo al rapporto con lui, ma è il Dio di chi lo desidera, di chi invoca il suo Nome. Occorre ricordare che il Dio d’Israele viene a liberare il suo popolo schiavo in Egitto perché i figli di Israele alzarono grida di lamento e «Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero» (Esodo, 3, 24). L’aver parte alla storia del suo popolo si realizza attraverso l’invocazione della sua comunità, e questo fa di lui un Dio che entra nella storia per la preghiera del suo popolo. Sì, l’età secolare ricorda soprattutto che il Dio dei cristiani desidera entrare ed essere presente nella storia dell’umanità in modo precario.
Ricordiamo la relazione tra prex (preghiera), precari (pregare) e precarius (precario), che alla lettera significa ciò che si ottiene con la preghiera. La presenza di Dio nel mondo è precaria perché è l’esito del precari della Chiesa. Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), che insieme a Friedrich Gogarten (1887-1967) è stato l’esponente di spicco della teologia della secolarizzazione, nella lettera dal carcere di Tegel, datata 16 luglio 1944, scrive: «Dio si lascia cacciare fuori dal mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È assolutamente evidente, in Matteo, 8, 17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza». Per Bonhoeffer «la maggiore età del mondo», che noi chiamiamo l’età secolare, è il risultato di una logica interna alla fede che fa piazza pulita di ogni falsa immagine di Dio. Per questo, è una capacità che gli viene da Dio stesso quella grazie alla quale, «l’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’ipotesi di lavoro Dio», grazie alla scienza, la tecnica e la medicina.
Dio non è più né necessario, né indispensabile all’uomo e alla donna contemporanei, ed è questa la vera immagine cristiana di Dio, la sua debolezza, la sua fragilità. Nell’età secolare l’uomo conosce il vero Nome di Dio che in Gesù Cristo si è rivelato come servo sofferente: la sua kénosi ha rivelato la sua divinità. Assumere la debolezza e la sofferenza di Dio nel mondo, vale a dire l’autonomia dal mondo, è la condizione e, al tempo stesso, la vocazione del cristiano oggi. In questo modo l’età secolare libera il cristiano «da una falsa immagine di Dio, apre lo sguardo verso il Dio della Bibbia, che ottiene potenza e spazio nel mondo grazie alla sua impotenza».
Nella società secolarizzata la liturgia confessa che il Dio dei cristiani è presente nella storia non attraverso il braccio politico di un regno, non grazie alla protezione dei potenti di questo mondo, a una legislazione civile e ancor meno grazie a un progetto culturale, ma solo e unicamente grazie alla fede della sua comunità che confessa la sua presenza nella storia. Nell’età secolare la liturgia annuncia il Vangelo della presenza di Dio nella storia.
Il teologo domenicano Claude Geffré ha acutamente osservato che il futuro del cristianesimo in Occidente dipenderà essenzialmente dalla capacità che nei prossimi decenni la Chiesa avrà di mostrare agli uomini e alle donne il cristianesimo come la religione del Vangelo. Solo così potrà emergere con chiarezza la complicità tra l’umano autentico e l’umanesimo evangelico. In effetti, il cristianesimo potrà essere la religione del futuro, e non solo del passato, esattamente perché c’è una sintonia profonda tra il cristianesimo come religione del Vangelo e il vere humanum di cui parla Gaudium et spes. È questa, a mio parere, la grande intuizione che attraversa Evangelii gaudium. La piena umanizzazione dell’umano è la salvezza che il Cristo offre e che il Vangelo della gioia annuncia. Questa bella immagine di una Chiesa che nella società secolarizzata assicura un servizio evangelico all’umano è di certo paradossale ma profondamente evangelica.
In questo contesto, l’età secolare sembra attestare con sempre maggiore chiarezza che, anche la liturgia, come e più di ogni altra azione della Chiesa, per essere realtà evangelizzante e al tempo stesso realtà umanizzante è chiamata anch’essa a divenire trasparenza del Vangelo. Solo una sempre maggiore qualità evangelica potrà, infatti, fare della liturgia una realtà realmente evangelizzante, nella consapevolezza che solo il Vangelo evangelizza. Nell’età secolare solo il nudo Vangelo evangelizza. Come ho già avuto modo di dire e di scrivere, l’esigenza della qualità evangelica della liturgia dipende dallo statuto assolutamente singolare che il rito ha nel cristianesimo.
Come ricorda Louis-Marie Chauvet: «La buona salute della fede cristiana è legata non a un rigetto del rito, ma a una sua gestione critica, e ciò suppone che esso sia costantemente evangelizzato. È a mio parere decisivo, a questo riguardo, ricordare che il cuore della liturgia e dei sacramenti cristiani non è il rito, bensì la parola di Dio: è sempre questa parola che in essi avviene, ma vi avviene sotto forma rituale». Si ha talvolta l’impressione che nel tanto parlare del rito ci si dimentichi che la ritualità è cristiana perché la parola di Dio vi è proclamata efficacemente.
Il rito cristiano è nient’altro che l’efficace visibilità della parola del Vangelo. Agostino definisce il sacramento quasi visibile Verbum. In questa prospettiva, mi sembra di cogliere che la secolarizzazione stia passando al vaglio i nostri riti liturgici e soprattutto alcune immagini di Dio che essi veicolano, ereditate da secoli di cristianità.
Gli stessi cristiani di oggi, pastori e laici, i più preparati e disposti a un confronto con la cultura contemporanea, affermano: riti sì, ma a condizione che siano di Cristo; domandandosi: quale memoria di lui compiono? Affinché la liturgia sia a tutti gli effetti evangelizzazione in atto, sembra sempre più imporsi come urgente il difficile compito di iniziare a discernere, senza ideologie ma anche senza complessi, quali aspetti dell’attuale liturgia possono rappresentare un ostacolo all’evangelizzazione nella società secolarizzata.
Occorre anzitutto riconoscere che il primo ostacolo per una gran parte di coloro che partecipano alla liturgia è rappresentato dal linguaggio liturgico. Alcuni testi liturgici che la tradizione ci ha trasmesso, appaiono oggi come delle grandi tele di rara bellezza che riproducono il nucleo della fede cristiana ma che, agli occhi-orecchi di quanti partecipano alle nostre liturgie, risultano impenetrabili e a tratti indecifrabili. Ogni volta che questi testi sono pregati nella liturgia si ha l’impressione che una ricchezza immensa vada perlopiù dispersa, scorrendo via come acqua versata.
Siamo oggi tutti ben più coscienti del fossato sempre più profondo che esiste tra il linguaggio liturgico e il linguaggio dominante nelle nostre società, che in alcuni Paesi europei è divenuto perfino linguaggio post-cristiano e post-religioso. Occorre almeno porsi la domanda: i testi liturgici sono per i cristiani di oggi eloquenza del Vangelo? Sono luogo di conoscenza del mistero di Cristo e strumento di confessione consapevole della fede? Se vogliamo che la liturgia evangelizzi, tutto al suo interno deve essere eloquente per il credente di oggi, ma soprattutto i testi, cioè le preghiere, altrimenti la liturgia non arriverà mai a plasmare la fede se non unicamente attraverso le letture bibliche.
Circa la reale comprensione del contenuto dei testi liturgici da parte dei credenti, non sembra, a mio parere, esserci una sufficiente vigilanza spirituale e pastorale, insieme alla consapevolezza dell’impoverimento che questo rappresenta per la fede. Se infatti, ordinariamente, l’interiorizzazione della preghiera liturgica della Chiesa non avviene, si rischia di ridurre la liturgia domenicale al solo ascolto della parola di Dio senza che il credente si unisca e aderisca spiritualmente alla fede della Chiesa. Fede che i testi liturgici al contempo contengono, esprimono e trasmettono al fine di favorirne l’assimilazione da parte del credente.
Si ha talvolta l’impressione di una diffusa rassegnazione circa l’irrilevanza dei testi liturgici nella vita di fede dei cristiani, anche dei più maturi, a causa del loro impenetrabile linguaggio. Per questa ragione, nulla ci impedisce di confidare che quell’esplicitazione dello statuto delle Conferenze episcopali auspicata da Papa Francesco al n. 36 di Evangelii gaudium, uno statuto «che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale», possa comprendere anche la possibilità, specie per Chiese locali europee immerse in un contesto secolarizzato, di ricercare forme inedite di un nuovo linguaggio liturgico, espressioni nuove per dire la fede oggi, adatte alla cultura, alla sensibilità, al linguaggio e al modo di esprimersi dell’uomo e della donna contemporanee.
Per essere realtà evangelizzante, il Dio della liturgia non può essere altro dal Dio del Vangelo, diversamente sarà un ostacolo all’evangelizzazione. Non possiamo pertanto esimerci dal domandarci se non rischiano di rappresentare oggi un ostacolo all’evangelizzazione quelle immagini di Dio, ancora presenti nella liturgia, legate alla teologia della soddisfazione, dell’espiazione, della placatio. Un Dio al quale domandare di guardare propizio, di accettare con benevolenza e di gradire con bontà i sacrifici, dunque un Dio da quietare e soddisfare con l’immolazione e l’offerta di sacrificio. Immagini sacrificali di Dio che ricorrono in modo oltremodo predominante nelle orazioni sui doni. Immagini non più credibili del divino, eredi di secoli di cristianità, più debitrici di una religione sacrificale (perlopiù pagana) che della rivelazione del volto di Dio Padre fatta da Gesù Cristo. Come non ricordare che per René Girard la secolarizzazione è l’effettiva realizzazione del cristianesimo quale religione non sacrificale.
Celebrare la liturgia nell’età secolare significa vivere, comprendere e accompagnare le profonde trasformazioni del nostro tempo i cui esiti sono ancora del tutto imprevedibili. Per ciò che riguarda la vita liturgica e la pastorale sacramentale delle comunità cristiane oggi e nei prossimi decenni, sarà oltremodo determinante l’atteggiamento che la Chiesa che vive in Occidente assumerà nei confronti della società secolarizzata, vale a dire la postura di fronte della concreta umanità di oggi. Rimane oltremodo decisiva la recezione ampia e positiva del concilio Vaticano II come “evento” ancora destinato a generare novità nella liturgia, nella convinzione che, ieri come oggi, la recezione del concilio rimane fortemente legata al giudizio che noi come Chiesa formuliamo sulla società contemporanea.
Il tipo di liturgia che desideriamo è ampiamente vincolato al modo in cui comprendiamo il ruolo e la missione della Chiesa c dei cristiani nel mondo attuale. Papa Francesco nell’Evangelii gaudium ce ne ha indicati i tratti essenziali, urgenti e soprattutto irrinunciabili. E sebbene, come si è soliti osservare, in Evangelii gaudium si parli solo per accenno della liturgia come realtà evangelizzante, personalmente sono convinto che tutto ciò che Papa Francesco in questa esortazione apostolica domanda alla Chiesa chiama direttamente in causa anche la liturgia della Chiesa. Perché la liturgia rivela cos’è la Chiesa e, al tempo stesso, dice cosa la Chiesa è chiamata a essere.
Avevo letto qualche riga, se si legge cio che dice del Sqacrificio è orribile
La chiedo di togliere questo articolo e scivero non al Osservatore, non rispondono nemmeno ma alla Civilta cattolica ! f Giacomo Engels
Scritto da: f Giacomo Leo Engels osb | 23/08/16 a 17:38
Ringrazio per l’indirizzo, che Giandiego ci ha fatto avere e non avevo letto nemmeno il nome del autore, credevo che era fatto dal proprietario del blog.
Certo non posso dire che il Bosselli non crede nel Sacrificio della Croce, ma è vero che sembra rigettare ogni idea di sacrificio – prendendo come scusa un modo sbagliato di capire il sacrificio come modo di placare una divinità offesa ! Mentre S.Paolo dice : Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo Figlio Unigenito...
Per essere realtà evangelizzante, il Dio della liturgia non può essere altro dal Dio del Vangelo, diversamente sarà un ostacolo all’evangelizzazione. Non possiamo pertanto esimerci dal domandarci se non rischiano di rappresentare oggi un ostacolo all’evangelizzazione quelle immagini di Dio, ancora presenti nella liturgia, legate alla teologia della soddisfazione, dell’espiazione, della placatio. Un Dio al quale domandare di guardare propizio, di accettare con benevolenza e di gradire con bontà i sacrifici, dunque un Dio da quietare e soddisfare con l’immolazione e l’offerta di sacrificio. Immagini sacrificali di Dio che ricorrono in modo oltremodo predominante nelle orazioni sui doni. Immagini non più credibili del divino, eredi di secoli di cristianità, più debitrici di una religione sacrificale (perlopiù pagana) che della rivelazione del volto di Dio Padre fatta da Gesù Cristo. Come non ricordare che per René Girard la secolarizzazione è l’effettiva realizzazione del cristianesimo quale religione non sacrificale.
Questo articolo di Bosselli era troppo lungo per leggere , avevo letto certe osservazioni, ma con questo brano devo dire che son d’accordo con Adriano , perche suppongo che infatti ci saranno altre ‘osservazioni’ come questo.
La religione cristiana è totalmente sacrificale ! Di fatto togliendo il sacrificio siamo totalmente secolarizzati. ( Questo non impedisce, che nella pietà popolare abbiamo spesso utilizzato la parola ‘sacrificio’ un po presto)
Non so dove parla B. sulla liturgia ortodossa e non voglio perdere il tempo per cercarlo. Mi pare giusto qui cittare l’ultima mia circolare:
Nell’ultima omelia (a Roma) prendendo spunto di una frase di S.Paolo : Offfrite i vostri corpi come sacrificio vivente, gradito a Dio. Questo è il vostro culto nel Signore ( Λογικη) –Rom.12,1 –ho osato criticare il modo , che questo culto è vissuto attualmente.
Questo culto le Chiese, che si chiamano ortodosse, l’hanno sempre celebrato e amato , la Chiesa Romana invece, che anche lei si chiamava ‘cattolica e ortodossa’, ha purtroppo – non volendo, magari – riservato questo culto a piccoli gruppi di fedeli, specialmente nei monasteri, che lo fanno con fedeltà e gioia, ma la maggioranza dei fedeli vive solo di un contenuto di fede interiore, che ha quasi nessun aspetto esterno e certamente niente, che ispira gioia e giubilo !
Non è di adesso, che questo mi posa problema, ma sto cercando, cosa possiamo fare per megliorare la situazione. La Chiesa ortodossa in Russia ha potuto sopravivere, grazie al culto, sotto il comunismo. Nel mondo occidentale, se non ritroviamo la gioia nel culto, non solo non avremo nessuna attrazione per chi cerca il Signore, ma rischiamo di essere totalmente sterminati.
Peccato , l’articolo che Giandiego ci ha mostrato, forse anche lui ha soltanto letto qualche linea e il titolo, che prometteva tanto di buono!
Scritto da: f Giacomo Leo Engels osb | 23/08/16 a 17:40