di Elisabetta Rosaspina
in “Corriere della Sera” del 27 luglio 2016
Era fragile e anziano: non hanno avuto alcuna difficoltà i due giovani invasati dell’Isis a sopraffarlo.
Però era forte, era coraggioso: non c’era incarico che lo facesse arretrare o che ritenesse inadeguato
per lui, a quasi 86 anni. Adesso direbbe senz’altro: «Dio perdona loro, perché non sanno quello che
fanno», padre Jacques Hamel, il primo martire cristiano d’Occidente di questo secolo.
Certamente non lo sapevano. Non sapevano che quello scricciolo d’uomo in tonaca bianca, della
generazione forse del loro bisnonno, era amico fraterno dell’Imam Mohammed Karabila, presidente
del Consiglio regionale per il Culto Musulmano dell’Alta Normandia. Che ora non si dà pace. Non
sapevano nemmeno, probabilmente, che la moschea di Saint Etienne-du-Rouvray è stata costruita
proprio su un pezzo di terra che la parrocchia in cui sono entrati come barbari aveva offerto alla
comunità musulmana. Non sapevano, senza dubbio, neppure che in quella moschea l’abate Jacques
Hamel aveva partecipato alla cerimonia funebre in memoria di un musulmano, Imad Ibn Ziaten, il
paracadutista di 30 anni assassinato quattro anni fa dal franco-algerino Mohammed Merah, in una
serie di attentati nel Sudovest della Francia. Non sapevano che il sacerdote cattolico e il religioso
musulmano facevano parte da un anno e mezzo, da quando i fratelli Kouachi avevano inaugurato la
stagione di sangue nella redazione parigina di Charlie Hébdo , di un comitato interconfessionale, in
cui si ragionava di religione e convivenza.
Ma anche se l’avessero saputo, non si sarebbero fermati, i due assassini. Nel loro delirio di
onnipotenza non sarebbero mai arrivati a capire la grandezza di un sacerdote di provincia che
credeva nel dialogo fra le religioni, che accettava con gratitudine e buona volontà di fare da
semplice ausiliario al parroco, l’abate Auguste Moanda-Phuati, più giovane di lui, come un umile
supplente. «Perché non si riposa, padre?» gli chiedevano. Era in pensione da oltre dieci anni,
avrebbe potuto ritirarsi: «Non ci sono abbastanza preti, c’è ancora bisogno di me», rispondeva con
un sorrisetto bonario. La messa feriale delle 9 gli andava benissimo, quando il «titolare» era
impegnato altrove.
Davanti al suo piccolo gregge di fedeli, normanni ma anche immigrati africani, era orgoglioso
quando gli toccava di celebrare la messa della mattina di Natale, magari in una piccola parrocchia
vicina, come quella di Santa Teresa. La mattina del 25 dicembre 2009, documentata in un video
dell’Ina ( Institut National de l’Audiovisuel ), si vede padre Hamel dare gli ultimi tocchi ai
preparativi, scegliere le musiche, impartire un’altra lezione d’amore a una cinquantina di
parrocchiani mattinieri, anziani e famigliole: «Gesù è venuto a farsi vulnerabile, povero — diceva
l’abate —. Gesù è venuto ed è vicino a tutti coloro cui mancano ragioni per vivere, ai poveri. Non è
una cosa da poco che il figlio di Dio, l’Onnipotente, si trovi la notte di Natale in una stalla».
Era nato nel 1930 a Darnétal, un comune di novemila abitanti, vicino a Rouen. Ordinato sacerdote
nel 1958, padre Hamel non si era mai molto allontanato dalla sua Normandia, ma non ignorava le
tragedie del mondo: «Che si possa noi, in momenti come questi, ascoltare l’invito di Dio a prenderci
cura di questo mondo — esortava —, a farne, là dove viviamo, un mondo più fraterno». Forse non
aveva capito che la guerra era arrivata anche dentro il suo piccolo mondo antico di parrocchiani che
aveva sposato, dei quali aveva battezzato i figli e benedetto le esequie: «Non pensava che dare la
sua vita per la parrocchia avrebbe voluto dire morire dicendo la messa», è sicuro il vicario
dell’arcidiocesi, Philippe Maheut. Ma padre Hamel non si sarebbe tirato indietro.