Domenica prossima, XI del tempo ordinario, il Vangelo festivo sarà Lc 7,36-50 - l'episodio in cui Gesù, invitato a cena dal fariseo Simone, incontra una donna peccatrice che gli bagna i piedi con le lacrime e li asciuga con i capelli creando scandalo. Ho ampiamente commentato questo episodio nel mio libro "L'arte della misericordia" (Qiqajon) di cui riporto un brano.
[il fariseo] Simone è l’uomo religioso che ha una padronanza intellettuale, dottrinale delle Scritture, ma senza fede. Manca di quell’ascolto profondo che fa cogliere il vero senso delle Scritture, le quali non annunciano altro che la misericordia di Dio. Si può conoscere alla perfezione la Bibbia e ogni catechismo, ma se in noi prevale quella che Gesù chiamava “durezza di cuore” (sklerocardía, cf. Mt 19,8; Mc 10,5; 16,1), non percepiamo questa verità. Eppure, l’Antico Testamento lo dice chiaramente. Prendiamo a esempio un passo celebre.
“Io perdonerò le loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31,34).
Siamo all’interno del cosiddetto “libro della consolazione e della speranza”, che comprende in capitoli 30 e 31 di Geremia ed è costituito da undici oracoli in forma poetica. Nel decimo, Geremia propone arditamente il superamento dell’antico patto del Sinai, siglato da Mosè, per una “nuova alleanza” con il Signore (cf. Ger 31,31).
Radice di tutti i movimenti spirituali, questa pagina è indubbiamente uno dei vertici dell’Antico Testamento. Cristo stesso nell’ultima cena la recupererà (“Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”, Lc 22,19-20 e 1 Cor 11,23-25), quella solenne omelia che è la lettera agli Ebrei la citerà integralmente (Eb 8,8-12) e Paolo stesso ama ricordarla ai cristiani di Corinto (2 Cor 3,3-6). L’accento è tutto sull’aggettivo “nuovo”: infatti, all’alleanza Dio-uomo di stampo quasi politico-bellico del Sinai si sostituisce un rapporto basato radicalmente sul “cuore”, cioè sull’interiorità. Alle tavole di pietra subentrano le tavole di carne del cuore umano trasformato, all’imposizione quasi estrinseca (v. 34) si sostituisce la “conoscenza” interiore (Ger 5,5; 4,22; 8,7; 24,6-7) fatta di adesione nella volontà, nell’intelligenza, nell’affetto e nell’azione, alla Legge si sovrappone la grazia, al peccato succede il perdono, al timore la comunione intima che crea un adattamento profondo tra persona conoscente e conosciuta[1].
È l’amore di Dio al centro. Non il peccato dell’uomo o i suoi presunti meriti: l’esperienza della misericordia di Dio ci converte, ci trasforma interiormente, ci fa essere “nuova creatura”.
La lettura del testo, però, fa emergere quella che sembra un’incongruenza, quando Gesù dice: “Le sono perdonati i suoi peccati perché ha molto amato” (Lc 7,47a).
Qui sembra che Gesù voglia dire che l’amore che la donna ha dimostrato è la causa del perdono da lei ricevuto, in una sorta d’inversione dell’ordine logico della parabola. Appena quattro versetti prima si diceva che il perdono era causa d’amore, da parte del debitore condonato! Questo particolare ha suscitato riflessioni e dibattiti tra i commentatori e gli esegeti. Senza entrare nei dettagli di questa “storia delle interpretazioni”, va detto che la preoccupazione di Gesù e degli evangelisti non è quella di formulare insegnamenti sistematici, come quelli a cui siamo abituati nella tendenza razionalista presente nella tradizione cristiana e nella filosofia dell’Occidente. I problemi di “concatenazione” sarebbero più che altro dovuti al nostro modo di pensare eccessivamente lineare, anche se Bovon sostiene che l’óti del versetto non vorrebbe dire esattamente “perché”, ma starebbe a significare che l’amore della donna è una prova dell’essere perdonata.
L’incontro con Dio, l’esperienza della sua misericordia e del suo perdono, è instaurare una relazione di riconciliazione. La persona umana non è uno spettatore passivo: l’iniziativa viene da Dio, ma sollecita la responsabilità umana, stimola la reciprocità. L’amore è una sorta di “circolazione sanguigna” allargata, nella quale lo stesso “fluido” circola tra due o più persone che sono animate dalla stessa vita. «Il dibattito in Luca non riguarda la persona di Dio e il primo passo, cronologica e principale, che compie, quanto piuttosto il rapporto che i due personaggi (la donna e Simone) hanno (o non hanno) stabilito per rispondere a quest’amore di Dio e di Gesù. I gesti della donna allora sono insieme indizi e cause del suo perdono»[2]. Chi è perdonato ama in risposta al perdono; e, in quanto ama, è aperto ad accogliere il perdono che è manifestazione suprema dell’amore. Come dice Silvano Fausti, amore e perdono si alimentano in una circolarità continua.
In tal caso, la traduzione potrebbe suonare così: “Si vede che i suoi peccati le sono stati perdonati, dal momento che ha dimostrato di saper amare molto”.
È una possibile traduzione di senso, più che di lettera, che trova riscontro in una sguardo d’insieme al Vangelo di Luca. A riprova che una lettura intelligente e autentica della pagina biblica non estrapola mai una singola frase, assolutizzandola. Nella Bibbia, possiamo trovare tutto e il contrario di tutto. Il senso si raggiunge, con fatica, cercando una sintesi e una prospettiva nello stile di Gesù, nella sintonia tra la forma delle sue parole e il contenuto dei suoi gesti.
Finora, non ci siamo mai chiesti come mai la donna abbia voluto incontrare Gesù a tutti i costi, pur affrontando una situazione quasi sicuramente imbarazzante. Lo si può capire considerando il cammino da lui compiuto fino a quel momento, così come Luca lo ha raccontato. Abbiamo già accennato al fatto che la sua fama si era largamente diffusa (cf. Lc 7,17). Ma che genere di fama era? La gente era stupita dagli insegnamenti che impartiva, per la sua parola autorevole (cf. Lc 4,32), ma anche dalla sua attenzione per malati e indemoniati per cui era ritenuto un guaritore (cf. Lc 4,40-41; 6,19). La dedizione di Gesù verso i sofferenti non conosceva vincoli di nazionalità e religione, dato che aveva guarito anche il servo di un centurione (cf. Lc 7,1-10) ed era caratterizzata da profonda compassione, come nel caso del figlio della vedova di Nain (cf. Lc 7,11-15). Si è detto delle dicerie suscitare dalla sua familiarità con i peccatori, ma a fare rumore doveva essere anche la misericordia più volte suscitata nei loro confronti. Aveva guarito un paralitico, dentro a una casa affollata, annunciandogli anche il perdono dei suoi peccati (cf. Lc 5,20). E, dopo aver accolto nel suo seguito il pubblicano Levi, a tavola nella sua casa affollata aveva dichiarato di non essere venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertissero (“Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i peccatori”, Lc 5,31).
Insomma, per Gesù la sofferenza delle persone era più importante dei loro peccati e dimostrava una sconfinata disponibilità all’apertura, all’accoglienza, al perdono. Era un atteggiamento che suscitava nelle persone fiducia e speranza di essere amati, nonostante i propri errori, di essere liberati dai propri dolori e dal peso delle proprie colpe. Gesù scaldava il cuore delle persone, soprattutto coloro che si sentivano reietti e giudicati, che agli occhi degli altri valevano di meno. Possiamo pensare, allora, che la donna, avendo ascoltato quel che si diceva di lui, si sia sentita incoraggiata a incontrarlo, convincendosi che attraverso di lui poteva riceve il perdono di Dio, là dove tutti la condannavano. La fiducia che lei riponeva in questo perdono ha liberato le sue potenzialità d’amore, ha reso possibili i suoi gesti. È una possibilità di perdono di cui si è convinta prima ancora che Gesù lo annunciasse esplicitamente. Davvero è una donna di fede.
[1] G. Ravasi, I profeti, Milano 1975, p. 206.
[2] F. Bovon, Il Vangelo di Luca. Vol. 1, Brescia 2005, p. 462.
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