Esce il 6 aprile in Francia il libro Tibhirine. L’héritage (a cura di Christophe Henning), una raccolta di testimonianze di diverse personalità sui frutti del messaggio di pace e di convivenza tra cristianesimo e islam dei sette monaci trappisti, sequestrati e uccisi in Algeria nel 1996. Il libro si apre con una prefazione di Papa Francesco, tradotta sull'Osservatore Romano. Gli scritti dei monaci di Tibhirine sono stati pubblicato in Italia in un importante testo delle Edizioni Qiqajon: Più forti dell'odio.
«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Giovanni 15, 13). Christian de Chergé e i suoi compagni avevano scelto di vivere in modo semplice la loro vocazione contemplativa in questa regione bella e arida dell’Atlas algerino. I monaci erano presenti a Tibhirine dal 1938, ma il monastero era fragile: erano gli “ospiti” della casa dell’islam, lavoravano la terra e condividevano la vita povera dei contadini.
I fratelli conducevano una vita comunitaria spoglia, irriducibilmente rivolta verso Dio che li univa. Sette volte al giorno, nella loro cappella, si levava la lode della loro preghiera. Rapiti la notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, i sette monaci di Tibhirine sono stati assassinati dopo lunghi giorni di sequestro, vittime della lotta fratricida che dilaniava il paese. Ma gli assassini non hanno preso loro la vita: l’avevano donata in anticipo, proprio come gli altri dodici religiosi e religiose, tra i quali il nostro fratello vescovo Pierre Claverie, ucciso in Algeria durante quegli anni bui.
Non sono fuggiti di fronte alla violenza: l’hanno combattuta con le armi dell’amore, dell’accoglienza fraterna, della preghiera comunitaria. Strumento di pace, di dialogo e di amicizia, i monaci hanno così risposto all’invito rivolto da san Giovanni Paolo II ai vescovi del Maghreb durante la loro visita ad limina nel 1986: «Voi vivete quello che il Concilio dice della Chiesa. Essa è un sacramento, ossia un segno, e non si chiede a un segno di fare numero». Piccola Chiesa orante in mezzo a un popolo di oranti, i monaci erano un segno sulla montagna. I fratelli cistercensi dell’Atlas hanno reso testimonianza con il loro sangue, vivendo in modo tragico questa prescrizione della regola di san Benedetto: che «Cristo [...] ci conduca tutti alla vita eterna» (capitolo 72).
Nella loro carne, hanno vinto l’odio nel giorno della grande prova. Ma è con l’intera loro vita che sono testimoni (martiri) dell’amore. E non senza difficoltà: «Abbiamo donato il nostro cuore “all’ingrosso” a Dio, e già ci costa molto che ce lo prenda al dettaglio», affermava padre Christian de Chergé, priore della piccola comunità. Ciò non riguarda solo i monaci e le monache: tutti noi siamo chiamati a dare la nostra vita nel dettaglio delle nostre giornate, in famiglia, al lavoro, nella società, al servizio della “casa comune” e del bene di tutti.
Venti anni dopo la loro morte, siamo invitati a essere a nostra volta segni di semplicità e di misericordia, nell’esercizio quotidiano del dono di sé, sull’esempio di Cristo. Non ci sarà altro modo di combattere il male che tesse la sua tela nel nostro mondo. A Tibhirine si viveva il dialogo della vita con i musulmani; noi, cristiani, vogliamo andare incontro all’altro, chiunque egli sia, per allacciare quell’amicizia spirituale e quel dialogo fraterno che potranno vincere la violenza. «Per conquistare il cuore dell’uomo, bisogna amare», confidava fratel Christophe, il più giovane della comunità. Ecco il messaggio che possiamo serbare nel nostro cuore. È semplice e grande: sull’esempio di Gesù, fare della nostra vita un “Ti amo”.
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