Oggi, a scuola, lezione su Etty Hillesum accompagnata da questo video.
Etty è una delle voci a cui faccio riferimento nel mio libro "Cerco parole buone. Su vita, amore e morte" (Paoline). Di lei parla anche Daniele Rocchetti sul suo blog "Diario di un laico" (qui riportato).
Sono reduce da un viaggio con alcuni amici in terra polacca e, come sempre capita, un giorno intero l’abbiamo passato ad Auschwitz-Birkenau. Ci sono state tante altre volte, molte in compagnia di persone, poi diventate amiche, che hanno vissuto il dramma della deportazione: Nedo Fiano, Hanna Weiss, Shlomo Venezia, Sami Modiano, Andra e Tatiana Bucci. Stavolta invece a farmi compagnia è stato il diario di una giovane donna, morta nel campo, il 30 novembre 194: Etty Hillesum.
NON SMARRIRSI NEL DOLORE DEL MONDO
Di lei si sa ben poco. Alcuni cenni biografici, il diario e le lettere da lei scritte negli ultimi anni della sua breve vita (in tutto, i suoi scritti coprono un arco di tempo brevissimo: 9 marzo 1941 – 7 settembre 1943) e che offrono la straordinaria possibilità di riflettere sul rapporto tra estremo e quotidiano. Etty è una giovane donna la cui esistenza si è smisuratamente estesa dalla piccola scrivania accanto alla finestra della sua stanza, che dava sulla piazza del Rijksmuseum, ad Amsterdam, dove ogni giorno cercava per sé “almeno un paio di parole“, come altri cercano una casa, un rifugio, fin dentro le pieghe della più grande tragedia storica del Novecento: “Se dico che stanotte sono stata all’inferno, che cosa potete capirne voi?” scrive da dentro il campo di transito di Westerbork, dove ogni lunedì arrivava un treno vuoto che ripartiva il mattino seguente carico di donne, uomini, vecchi, bambini, destinati allo sterminio. E tuttavia, in quel lungo tragitto dalla sua scrivania (“il più bel posto di questa terra“) alla storia, Etty non solo non smarrisce se stessa, ma non smarrisce la libertà di continuare ad amare gli esseri umani e di continuare ad assaporare la bellezza del mondo. Dentro le pieghe della vita quotidiana e con l’acuta consapevolezza dell’inevitabile destino a cui lei e il suo popolo sono destinati, mantiene intatta “la coscienza che, in ultima istanza, non ci possono togliere nulla. Che esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro ciascuno di noi per poter congiungere le mani in una preghiera“.
UN BARLUME DI ETERNITÀ DENTRO LE AZIONI QUOTIDIANE
Etty rende continuamente evidente la ricchezza delle potenzialità di una vita umana. Anche nelle situazioni più terribili, e di maggiore costrizione, si può trovare la forze se non di capovolgere il dato, almeno però di rovesciarne il senso: “Ho il dovere di vivere nel modo migliore, e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro. Allora chi verrà dopo di me non dovrà più cominciare tutto da capo e con fatica“. È questo il nucleo semplice e radicale che definisce l’esperienza di resistenza di Etty. La trasformazione di sé come momento indispensabile e fondamentale della trasformazione del mondo. Etty sa amare la vita, e trovarvi bellezza, anche nelle situazioni più intollerabili non perché sia un’anima bella, che non sa vedere l’orrore del mondo, ma perché sa che “tutto fa parte di questo mondo: una poesia di Rilke come un ragazzo che cade dall’aeroplano“. Non a caso, molti l’hanno associata a Dietrich Bonhoeffer, che nel carcere di Tegel, a Berlino, poco tempo prima di venire giustiziato scrive: “Meravigliosamente custoditi, da forze che vegliano per il nostro bene, attendiamo senza timore l’avvenire. Dio è con noi sera e mattina, e lo sarà fino all’ultimo giorno”. Tutto questo comporta farsi carico del presente, radicarsi nel presente, senza immaginare vie di fuga impossibili. Significa non fuggire la realtà e non ritagliarsi un mondo a propria misura. Perché Etty è convinta che ciò che è umano, profondamente umano, non può essere soffocato dal male. “Se sapessimo capire il tempo presente, lo impareremmo da lui a vivere come un giglio del campo“. Ridotti all’essenziale. Ma non privati della speranza. “Un barlume di eternità filtra sempre più nelle mie più piccole azioni e percezioni quotidiane. Io non sono sola nella mia stanchezza, malattia, tristezza o paura, ma sono insieme con milioni di persone, di tanti secoli: anche questo fa parte della vita che è pur bella e ricca di significato nella sua assurdità, se vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile. Così, in un modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto; ma si fa veramente assurda non appena se ne accetta o rifiuta una parte a piacere, proprio perchè essa perde allora la sua globalità e diventa tutta quanta arbitraria.” Me lo dicevo mentre attraverso la grande fabbrica dello sterminio che è Birkenau: questa è la grande lezione di Etty, restituirci tutta la responsabilità del nostro “esserci”.
UN DIO DA SALVARE
Non solo. La giovane ebrea Etty scopre a poco a poco che la fede può essere anche qualcosa in cui libertà e sottomissione diventano la stessa cosa. Bisogna “sopportare i misteri di Dio“, e solo sopportandoli, senza presumere di possederne le chiavi, si può anche sperare di “aiutare Dio”, quando Dio non sembra più in grado di far fronte alla malvagità degli esseri umani.” (Caramore) Non a caso J.G.Gaarlandt, l’editore olandese che nel 1983 decise la pubblicazione del diario, ha scritto: “Certe volte Etty è così assorta nelle sue conversazioni con Dio che il suo sembra puro misticismo. Era una mistica Etty? Forse sì, ma scriveva: “il misticismo deve fondarsi su un’onesta cristallina: quindi prima bisogna aver ridotto le cose alla loro nuda realtà”. Il suo misticismo non la condusse alla contemplazione solitaria, ma dritto nel mondo dell’azione. Era una visione del mondo che non aveva nulla a che fare con la fuga o l’illusione; si fondava anzi su una solida percezione della realtà, faticosamente conquistata. Il suo Dio può apparirci in piena consonanza con la sua capacità di vedere la realtà, di sopportarla e di trovarvi consolazione. Un Dio faticosamente trovato ma che scopre essere alla radice di ciò che è: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo.” È l’inizio di un’intensa attività interiore, di un rapporto dialettico tra due che sono già uno, lei e Dio, in cui ciascuno ha bisogno che l’altro ci sia, vivo e attivo, che le farà dire più tardi: “E se Dio non mi aiuterà allora sarò io ad aiutare Dio”, sempre più certa che tutto può andar perso, ma mai l’amore per la vita: “E questo probabilmente esprime il mio amore per la vita: io riposo in me stessa. E quella parte di me, la parte più profonda e la più ricca in cui riposo è ciò che io chiamo Dio.” Quel Dio che sente sempre più come abbraccio avvolgente e rassicurante: “E’ così che mi sento, sempre e ininterrottamente: come se stressi fra le tue braccia, mio Dio, così protetta e sicura e impregnata d’eternità“. Come un appello imprescindibile. “L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio“. Un Dio da salvare. Un Dio fragile che rischiava di essere annientato. Era necessario che qualcuno, anche solo uno, lo sapesse custodire nel proprio cuore e lo salvasse così dalla distruzione e dalla morte.
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