Riporto alcuni testi di p. TIMOTHY RADCLIFFE, maestro generale dell'ordine domenicano dal 1992 al 2001 e autore di libri di argomento teologico e spirituale pubblicati in tutto il mondo. Queste sue riflessioni, che possono essere lette come un contributo all'attuale dibattito italiano su famiglia e unioni civili, sono tratte dal libro "Parole di oggi. Un orientamento alla luce della Parola" (Queriniana).
La chiesa deve reggere una precisa visione morale, ma ha bisogno di trovare un modo per non apparire ai più sulla difensiva contro la modernità e, in un certo qual modo, "escludente" ogni modernità per l'uomo. Questo risultato è difficile da raggiungere. Solo se siamo visti stringere amicizia con le persone, aperti a tutto ciò che vivono, le loro speranze e le loro lotte, saremo in grado di trovare una parola di novità e saremo in grado di parlare di Dio alle persone.
Ad esempio, potremo parlare di omosessualità e matrimonio gay solo nella misura in cui saremo visti come accoglienti verso le persone omosessuali, capaci di ascoltare e godere della loro profonda amicizia. Solo in un momento successivo avremo così l'opportunità di andare alla ricerca di parole che allo stesso tempo siano fedeli al vangelo e autentiche per la vita delle persone, che le sentiranno come proprie.
Il compianto cardinale Basil Hume insegnava che Dio è presente in ogni gesto d'amore, compreso quello fra persone omosessuali. E questo amore deve essere rispettato, tutelato e garantito dall'istituto delle unioni civili, ma consentire il matrimonio fra persone dello stesso sesso - per quanto ammirevole sia l'intenzione - significa in ultima analisi negare "la dignità della differenza".
Non si tratta di un atto discriminatorio, bensì del mero riconoscimento che il matrimonio è un istituto fondato su un'unione che implica la differenza sessuale. E non si tratta qui di negare la parità dell'amore fra due persone omosessuali, perché ogni amore ha comunque un valore infinito.
Ora, il matrimonio si fonda sul dato meraviglioso della differenza sessuale e sulla sua potenziale fertilità. Senza di esso non esisterebbe la vita su questo pianeta, non ci sarebbe evoluzione, non avrebbe fatto la sua comparsa l'essere umano, non si parlerebbe di futuro. (...) Ciò detto non intendo in alcun modo sminuire l'impegno d'amore che unisce due persone dello stesso sesso: pure esso va sostenuto e tutelato; ecco perché i responsabili delle chiese stanno giungendo (lentamente) ad approvare le unioni civili fra persone dello stesso sesso. Il Dio dell'amore può essere presente in ogni autentico amore.
Concordo sul fatto che la differenza fondamentale (che è biologica ed ontologica e non può, nè deve, pertanto essere superata) fra coppie etero ed omosessuali sia nel dato di fatto dell'impossibilità generativa. L’accesso al sacramento del matrimonio rimane riservato alle coppie credenti eterosessuali che, in quanto feconde (in via generativa o per adozione) possono realizzare il “sogno di Dio”, per usare le belle e suggestive parole del Papa.
Tuttavia chiediamoci quale sia, nella Chiesa e nelle nostre comunità, la condizione delle persone che vivono una relazione omosessuale. Procedendo per sillogismo, devono forse essere considerate l’ “incubo di Dio”? Ovviamente no (per qualche cattolico conservatore magari sì, ma non è questo il punto).
Il catechismo della Chiesa cattolica ai paragrafi 2357 e ss. ritiene gli atti di omosessualità “intrinsecamente disordinati” e “contrari alla legge naturale”, perché precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale.
Viene riconosciuta la vocazione degli omosessuali credenti a realizzare la volontà di Dio nella loro vita (quindi c’è un disegno - e magari, aggiungo io, un sogno! - anche per loro), tuttavia si precisa inequivocabilmente che “le persone omosessuali sono chiamate alla castità”. “Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana”.
Se ne deduce che il cammino degli omosessuali verso la perfezione è molto più impervio di quello degli etero, dato che implica un obbligo di castità per tutti, anche al di fuori della libera scelta di una vita consacrata o sacerdotale.
A mio parere è riduttivo che, qui come altrove (pensiamo alla questione dei divorziati: anche qui il problema non si pone se queste persone non si risposano, o persino se vivono una seconda unione, ma come fratello e sorella) l’accento venga posto sull’ “atto” sessuale in sé. Se riconosciamo che anche gli omosessuali (e i fratelli che, divorziando, sono venuti meno all’indissolubilità del matrimonio) possono e sono chiamati ad essere perfetti, e che nulla sul piano dell’essere impedisce loro la perfezione, non sarà, a mio avviso, l’atto sessuale ad allontanare, se non temporaneamente, questi fratelli da Dio.
In cosa consiste infatti il peccato? Certamente il peccato non può consistere nella relazione, dato che la dottrina riconosce agli omosessuali un’affettività piena “anche mediante il sostegno di un’amicizia disinteressata” (cioè anche nel vivere una relazione, purché casta). Se il peccato consiste nel compiere un atto sessuale non generativo, non è differente dal peccato di quelle coppie di sposi che responsabilmente, dopo aver realizzato la propria vocazione familiare mettendo al mondo dei figli, hanno dei rapporti sessuali protetti e quindi non procreativi. Peccato, certo, ma sempre perdonabile e superabile.
L’impressione invece (ma potrei certamente sbagliarmi, anzi ne sarei felice), è che gli omosessuali che vivono una relazione siano condannati all’esclusione dalla vita sacramentale (non solo dal matrimonio, il che si comprende sulla base di quella fondamentale differenza detta all’inizio, ma anche dalla Comunione, non potendo ricevere l’assoluzione) perché proprio la stabilità di tale relazione impedirebbe loro di vivere in castità. Essi vivrebbero quindi (non diversamente dai divorziati risposati, ma per questi c’è ora almeno la speranza, affidata in prospettiva alla relazione finale sul Sinodo, di un discernimento “caso per caso”) in una condizione di “permanenza” di peccato. A mio parere se non si farà qualcosa per superare questo concetto, per quanto mi consta del tutto estraneo al Vangelo, di “peccato permanente” (non c’è peccato che Gesù non abbia già perdonato! Solo la Sua Grazia è permanente!), pur nel nuovo e sacrosanto spirito di accoglienza, accompagnamento, e misericordia sarà molto difficile che si arrivi all’effettivo superamento delle discriminazioni nei confronti dei fratelli con orientamento omosessuale.
Per concludere tornando alla premessa iniziale, se una differenza fondamentale c’è e non va negata (rispetto significa anzitutto riconoscimento delle reciproche differenze, e non equiparazione a tutti i costi!), è forse giunto il momento di chiedersi se tale impossibilità generativa, che non rende certo gli omosessuali meno degni dell’amore di Dio, sia idonea a giustificare l’imposizione alla loro affettività di un aggravio ulteriore, l’obbligo di castità, rispetto agli altri credenti.
Scritto da: Raffaella Buonvino | 25/01/16 a 17:41