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25/01/16

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Raffaella Buonvino

Concordo sul fatto che la differenza fondamentale (che è biologica ed ontologica e non può, nè deve, pertanto essere superata) fra coppie etero ed omosessuali sia nel dato di fatto dell'impossibilità generativa. L’accesso al sacramento del matrimonio rimane riservato alle coppie credenti eterosessuali che, in quanto feconde (in via generativa o per adozione) possono realizzare il “sogno di Dio”, per usare le belle e suggestive parole del Papa.
Tuttavia chiediamoci quale sia, nella Chiesa e nelle nostre comunità, la condizione delle persone che vivono una relazione omosessuale. Procedendo per sillogismo, devono forse essere considerate l’ “incubo di Dio”? Ovviamente no (per qualche cattolico conservatore magari sì, ma non è questo il punto).
Il catechismo della Chiesa cattolica ai paragrafi 2357 e ss. ritiene gli atti di omosessualità “intrinsecamente disordinati” e “contrari alla legge naturale”, perché precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale.
Viene riconosciuta la vocazione degli omosessuali credenti a realizzare la volontà di Dio nella loro vita (quindi c’è un disegno - e magari, aggiungo io, un sogno! - anche per loro), tuttavia si precisa inequivocabilmente che “le persone omosessuali sono chiamate alla castità”. “Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana”.
Se ne deduce che il cammino degli omosessuali verso la perfezione è molto più impervio di quello degli etero, dato che implica un obbligo di castità per tutti, anche al di fuori della libera scelta di una vita consacrata o sacerdotale.
A mio parere è riduttivo che, qui come altrove (pensiamo alla questione dei divorziati: anche qui il problema non si pone se queste persone non si risposano, o persino se vivono una seconda unione, ma come fratello e sorella) l’accento venga posto sull’ “atto” sessuale in sé. Se riconosciamo che anche gli omosessuali (e i fratelli che, divorziando, sono venuti meno all’indissolubilità del matrimonio) possono e sono chiamati ad essere perfetti, e che nulla sul piano dell’essere impedisce loro la perfezione, non sarà, a mio avviso, l’atto sessuale ad allontanare, se non temporaneamente, questi fratelli da Dio.
In cosa consiste infatti il peccato? Certamente il peccato non può consistere nella relazione, dato che la dottrina riconosce agli omosessuali un’affettività piena “anche mediante il sostegno di un’amicizia disinteressata” (cioè anche nel vivere una relazione, purché casta). Se il peccato consiste nel compiere un atto sessuale non generativo, non è differente dal peccato di quelle coppie di sposi che responsabilmente, dopo aver realizzato la propria vocazione familiare mettendo al mondo dei figli, hanno dei rapporti sessuali protetti e quindi non procreativi. Peccato, certo, ma sempre perdonabile e superabile.
L’impressione invece (ma potrei certamente sbagliarmi, anzi ne sarei felice), è che gli omosessuali che vivono una relazione siano condannati all’esclusione dalla vita sacramentale (non solo dal matrimonio, il che si comprende sulla base di quella fondamentale differenza detta all’inizio, ma anche dalla Comunione, non potendo ricevere l’assoluzione) perché proprio la stabilità di tale relazione impedirebbe loro di vivere in castità. Essi vivrebbero quindi (non diversamente dai divorziati risposati, ma per questi c’è ora almeno la speranza, affidata in prospettiva alla relazione finale sul Sinodo, di un discernimento “caso per caso”) in una condizione di “permanenza” di peccato. A mio parere se non si farà qualcosa per superare questo concetto, per quanto mi consta del tutto estraneo al Vangelo, di “peccato permanente” (non c’è peccato che Gesù non abbia già perdonato! Solo la Sua Grazia è permanente!), pur nel nuovo e sacrosanto spirito di accoglienza, accompagnamento, e misericordia sarà molto difficile che si arrivi all’effettivo superamento delle discriminazioni nei confronti dei fratelli con orientamento omosessuale.
Per concludere tornando alla premessa iniziale, se una differenza fondamentale c’è e non va negata (rispetto significa anzitutto riconoscimento delle reciproche differenze, e non equiparazione a tutti i costi!), è forse giunto il momento di chiedersi se tale impossibilità generativa, che non rende certo gli omosessuali meno degni dell’amore di Dio, sia idonea a giustificare l’imposizione alla loro affettività di un aggravio ulteriore, l’obbligo di castità, rispetto agli altri credenti.

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