MASSIMO FAGGIOLI, Huffington Post, 25 gennaio 2016
I cattolici - in Italia e non solo - soffrono di un cronico ritardo culturale quando ci sono in gioco i diritti e le libertà, almeno dalla Rivoluzione francese in poi. Non a caso l'eroe dei cattolici reazionari è quel Pio IX che nel Sillabo (1864) definì l'incompatibilità tra libertà moderne e cattolicesimo. Ci vollero un secolo e un Papa che aveva studiato la storia, Giovanni XXIII, che nel 1963 con l'enciclica Pacem in terris aprì il dialogo tra cattolicesimo e le libertà. Ma nel discorso sulle libertà oggi (e anche per la chiesa oggi) la Rivoluzione francese è un lontano ricordo e la sola rivoluzione che conta è quella americana: non quella di quasi due secoli e mezzo fa, ma quella dell'ultimo decennio che ha cambiato i rapporti tra cultura gay, diritto e politica negli Stati Uniti. L'America ha legalizzato il gay marriage in meno di dieci anni, in particolare tra il 2004 (stato del Massachusetts) e il 2015 (sentenza della Corte Suprema).
Non v'è dubbio che la retorica della "culture war" all'americana è responsabilità non solo di quei cattolici italiani che si riuniranno al "Family Day" sabato 30, ma anche e in egual misura di quei laici italiani che hanno importato il linguaggio del "marriage equality", ma in un contesto culturale molto diverso: in Italia come in America il dibattito sul diritto al matrimonio omosessuale è la rivendicazione di un diritto, ma in America la cultura matrimoniale e familiare è un mix di antico tribalismo dei coloni, di moderna cultura dei diritti, di "political correctness" postmoderna (dell'etichetta del political correctness c'è molto poco in Italia, sia nella cultura del laicismo anticlericale che nelle parole d'ordine del familismo cattolico). Quello che manca totalmente in Italia è il parallelo - fortissimo in America - tra liberazione gay da una parte e liberazione degli schiavi e dei neri americani nel secolo tra la guerra civile tra il nord e il sud e il "civil rights movement" di cinquant'anni fa.
Ma questo parallelo getta una luce su una questione chiara per chi vive in America (come il sottoscritto). In questo ultimo decennio, all'avanzamento sorprendente dei diritti dei gay in America è corrisposto un peggioramento della questione razziale e sociale: è un'America sempre più indifferente alle diseguaglianze economiche e sociali, e alle violazioni delle libertà civili di suoi cittadini meno abbienti. In altre parole, chi prende a modello l'America oggi dovrebbe tener presente la percezione di uno scambio tra nuovi diritti e vecchi diritti. Alla conquista di nuovi diritti (quelli legati all'identità sessuale, etnica e religiosa) corrisponde la perdita o un indebolimento dei vecchi diritti (nell'ambito della libertà economica e politica). La sentenza della Corte Suprema del 2015 sul matrimonio omosessuale riconosce diritti a quegli americani che, per livello di reddito e di scolarità, sono in grado di esercitare quel diritto e di accedere all'istituzione matrimoniale, che in America è ancora vista come un achievement, un traguardo simbolo del successo personale. Ma la stessa Corte Suprema che nel 2015 ha legalizzato il "same sex marriage", nel 2013 ha indebolito alcune leggi-chiave per lo spazio delle libertà economiche e politiche in America (come per esempio il "Voting Rights Act" del 1965). Questo paradosso rappresenta bene la chiara tendenza della cultura americana (anche di quella liberal) a concentrarsi sempre di più sui diritti individuali di cittadini mobilitati nell'advocacy dei loro diritti, e a trascurare le dimensioni economiche e sociali della giustizia dei cittadini in quanto tali: dimensioni che non sono più servite dalla politica a livello federale e statale, e ora apparentemente neppure dalla giurisprudenza della Corte Suprema.
Questo accade nel paese-faro delle libertà e io credo ci si dovrebbe chiedere quanto di questo stia accadendo anche in Italia. Questo non è per sminuire quanto accaduto in America e quanto sta per accadere (si spera) in Italia: chi scrive è favorevole alla legge sulle unioni o matrimonio omosessuale pur rimanendo nettamente contrario alla maternità surrogata. Ma nell'opposizione ai nuovi diritti c'è un istinto di difesa di un sistema sociale in via di smantellamento. Quando alcuni vescovi dicono "i problemi sono altri", affermano in un modo evidentemente rozzo e scomposto che la chiesa si sente (a torto o a ragione) rimasta la sola (o quasi) a difendere quei vecchi diritti di libertà economica e politica.
Questo diventa per alcuni un alibi sufficiente per negare i nuovi diritti. Il cattolicesimo che scende in piazza contro il matrimonio gay è evidentemente impaurito da nuovi modelli di famiglia e di genitorialità. Ma è anche espressione e parte di un cattolicesimo sociale che rappresenta una cultura della famiglia come interprete di quei vecchi diritti, e che vede i nuovi diritti come sottrazione dei vecchi diritti. In altre parole, credo che sia storicamente miope non valutare la positiva apertura dell'Italia laica a questi nuovi diritti senza considerare che questo passo avanti nella nostra cultura civile sta avvenendo contestualmente all'impoverimento economico e sociale di questo paese.
Questa è una delle differenze tra il dibattito sul "gay marriage" in Italia oggi e la stagione delle battaglie referendarie degli anni settanta. Quella del "Family Day" è una cultura della famiglia che chiaramente fatica a modernizzarsi e che dovrà farlo, come ha dovuto fare dal Sillabo di Pio IX in poi. Ma appiattirla esclusivamente su un'ideologia di negazione dei diritti altrui vuol dire non comprendere, a mio avviso, il profondo spazio politico e culturale su cui si muove la contrapposizione tra "gay marriage" e "Family Day", e in un certo senso anche tra laici e cattolici nell'Italia di oggi. Sul fronte intracattolico - specialmente sulla geometria dei rapporti tra gli organizzatori del "Family Day", i vescovi e papa Francesco - ne sapremo di più questa settimana, dopo il Consiglio permanente della CEI che si apre oggi.
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