La Repubblica, 26 Agosto 2015
di ENZO BIANCHI
Dopo la shoah il tema del perdono è entrato con drammatica attualità nella riflessione filosofica e teologica con tutti i suoi laceranti interrogativi: si può perdonare il male assoluto? chi e a nome di chi può perdonare? chi può chiedere il perdono e, se lo può fare, è a nome suo o anche di altri ormai morti? e a chi si chiede perdono: alle vittime, ai loro discendenti, parenti, compagni di sventura? Interrogativi riemersi con forza anche in occasione della Liturgia del perdono voluta da Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 e ora tornati attualissimi dopo la visita di papa Francesco al tempio valdese di Torino, le sue parole accorate – “In nome del Signore Gesù Cristo, perdonateci!” – e la lettera di risposta del sinodo valdese celebrato in questi giorni a Torre Pellice. C’è chi ha scritto che i valdesi hanno restituito al mittente la richiesta di perdono, ma in verità non è così.
Innanzitutto va ricordato che un cristiano deve assolutamente chiedere il perdono alla vittima per il male fatto e quindi a Dio che può perdonare e cancellare le colpe e restituire al peccatore la sua integrità di essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio. Per questo i cristiani chiedono e si concedono reciprocamente il perdono e, sull’esempio di Gesù che in croce ha pregato “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!”, dovrebbero sempre, sempre perdonare all’offensore. Ma questa invocazione di perdono a Dio, questo dono dei doni (“per-dono”) è possibile solo in vita, tra carnefice e vittima: una volta morti l’uno e l’altra, questo perdono può avere come soggetto solo Dio.