Figli, no grazie?
Su la Repubblica dello scorso 8 aprile, un articolo di Maria Novella De Luca conferma alcuni dati già noti sulle tendenze demografiche in atto in Italia, dai quali emerge una rinuncia ormai di massa al diventare genitori.
Vogliono essere, orgogliosamente, voci fuori dal coro. Né madri né padri per scelta, non per necessità... Soddisfatti, mentre il resto del mondo (occidentale), etero, single, gay, si affanna nella ricerca di maternità impossibili... già oggi oltre il 24% delle donne nate nel 1965 non ha avuto figli, contro il 10% della Francia... la prospettiva sembra quella di un paese a demografia zero.
Una riflessione della filosofa Michela Marzano evidenzia come ci sia una forzatura nel voler giudicare la scelta di non avere figli in base a categorie come la vergogna o l'orgoglio, come se non ci fosse un rapporto maturo con la nostra condizione umana.
Io vorrei fare una considerazione ulteriore, anche nella mia veste di padre di tre figli, esperienza che considero tra le più importanti della mia vita, ma che comporta anche un impegno non indifferente in termini economici e di "gestione del tempo dell'esistenza".
Intendo mettere in dubbio l'idea che il diventare genitori sia una scelta, almeno nell'accezione che comunemente viene data a questo termine.
Provo a spiegarmi. Certamente, una decisione libera, cosciente e responsabile è decisiva nella genitorialità. Non sono però d'accordo nel considerarla parte di un programma, come nel caso di un percorso educativo o lavorativo. Sarebbe come dire che l'esistenza umana, soprattutto nella sua dimensione relazionale, non è altro che l'espressione del nostro io, con i suoi calcoli e i suoi schemi, rinchiudendola in un orizzonti che stabiliamo arbitrariamente.
Per me, il diventare padre non è stata una scelta programmata. L'ho voluto, ma non faceva parte di un'idea di vita predeterminata. E' stata piuttosto una possibilità che si è dischiusa dentro la mia storia, per come si è dipanata, e nel rapporto con mia moglie. E a quella possibilità abbiamo detto sì, anche quando la si è dovuta misurare con una serie di incognite legate alle mie condizioni di salute.
Direi che il diventare genitore, per me, è stato il rispondere a una chiamata. E' un termine che ha una connotazione religiosa, ma che può essere inteso anche in un senso umano più ampio come l'appello che ci viene dalle nostre relazioni.
Sì, la chiave è la dimensione relazionale intrinseca alla nostra umanità. Le relazioni ci precedono e ci accompagnano. Sempre. Non possiamo evitarle. Possiamo, al più, scegliere la qualità delle nostre relazioni e lavorare per renderle il più possibile umane. Altrimenti, divengono disumane, come nel caso di chi sceglie di togliere la vita a sé e ad altri. Sono eventualità che purtroppo vediamo tutti i giorni.
Le relazioni ci chiamano, interpellano la nostra responsabilità. E la genitorialità fa parte di questa dimensione, una genitorialità che io intendo in senso non solo strettamente biologico, ma come un "generare alla vita" l'altro, un "lasciare spazio nella mia vita al suo venire alla vita". Da questo punto di vista, sono genitori, in un certo senso, anche un prete, un insegnante, un medico... E' un'apertura che racchiude una componente di rinuncia a sé, ad alcune prerogative della nostra libertà, ma in vista di un arricchimento nostro e soprattutto altrui. E' una "libertà per" a cui potremmo dare il nome di "generatività".
Ecco, io ho il timore che in molte rinunce alla paternità e alla maternità vi sia, alla radice, una chiusura rispetto alla nostra relazionalità in senso più ampio, alla generatività, nel contesto di una società della gratificazione istantanea (Schulze) e di una cultura individualizzata (Bauman). Una cosa è lo sviluppo della soggettività, altra cosa è l'ipertrofia dell'individuo.
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