Il filosofo Massimo Cacciari su san Francesco al Centro Balducci di Zugliano (Udine), introduce l'incontro don Pierluigi Di Piazza (30 ottobre 2014).
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Il filosofo Massimo Cacciari su san Francesco al Centro Balducci di Zugliano (Udine), introduce l'incontro don Pierluigi Di Piazza (30 ottobre 2014).
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di Silvana Seidel Menchi, in “Il Sole 24 Ore” del 29 marzo 2015
Un autore che utilizza la parola “appuntini” nel titolo del suo libro deve essere molto sicuro del fatto suo. Alberto Melloni in Amore senza fine, amore senza fini. Appuntini di storia su chiese, matrimoni e famiglie ( Il Mulino, Bologna, pagg. 142, € 12) ha da dire cose importanti e lo sa. Il tema di Melloni è il matrimonio in quanto amore. Questo tema occhieggia dietro un ventaglio di argomenti che sono attualmente tra i più dibattuti nella società civile italiana – nozze omosessuali, regolazione pattizia della convivenza (già “concubinato”), ammissione alla comunione ecclesiale dei divorziati risposati, femminicidio come frutto del sessismo. Il saggio tematizza anche gli scontri che stanno a monte di questi dilemmi attuali e che continuano a condizionarli – cioè l’alternativa tra matrimonio religioso e matrimonio civile, le battaglie per il divorzio, per l’interruzione volontaria della gravidanza, per la contraccezione ormonale, contro l’accanimento medicale. Dietro a queste questioni che hanno dominato in passato o dominano oggi il nostro orizzonte quotidiano, riemerge sempre di nuovo il problema cruciale di questo saggio, nel quale tutte le sue molteplici componenti convergono e trovano una loro unità, anzi si potenziano reciprocamente: il matrimonio inteso nella sua accezione più forte e dirompente, cioè in quanto «legame più irresistibile e più fragile che la vita regali». Proprio come preannuncia il titolo.
La storia del matrimonio che l’autore ricostruisce partendo da Adamo ed Eva, toccando (fugacemente) il matrimonio nel diritto romano, fermandosi in modo più analitico sul matrimonio medievale di puro consenso, delineando incisivamente le caratteristiche del matrimonio tridentino, del matrimonio civile sancito dal codice napoleonico e dai codici che a esso si sono improntati, fino al matrimonio come contratto tutelato dagli stati moderni, appare caratterizzata da una continuità millenaria, nella quale lo sguardo severo di questo autore non coglie incrinature sostanziali. Il matrimonio codifica oggi come sempre ha codificato il «principio di autorità» che regola l’intera società, sancisce anzi «santifica» l’inferiorità femminile, scinde tendenzialmente il coniugio dall’amore, subordina il dono coniugale alla costruzione della famiglia e aggrava la famiglia stessa – la sede di quei «dolori e gioie semplici di cui l’affetto custodisce il senso» – di un compito straniante e deviante, cioè costituire «la cellula della società». Quale prova più lampante di questa formula – coniata da Jean Bodin al declino del secolo XVI, rilanciata dai giuristi gallicani al servizio della corona di Francia nel secolo XVII, adottata pari pari da Pio XII nel secolo XX –, quale argomento più stringente per provare la perfetta osmosi tra cultura cristiana e cultura secolare, tra matrimonio come sacramento e matrimonio come contratto, ovverosia «l’interscambio tra il matrimonio religioso del regime di cristianità e matrimonio civile del regime di modernità»? Questa santa alleanza – suggerisce l’autore – celebra i suoi trionfi a spese dell’essere umano individuo, del suo senso della vita, della sua aspirazione alla felicità: a spese di quell’amore, insomma, che non è etero o omo, non divino o umano, non spirituale o carnale, perché «l’amore è uno».
Quello che in particolare suscita lo sdegno lucido dell’autore è il concetto de «i fini propri del coniugio». Tali fini (denunciati fin dal titolo) sarebbero, auspice Agostino, il porre rimedio alla concupiscenza e il mettere al mondo dei figli. Questa dottrina, sancita da una catechesi secolare, ispira all’autore formulazioni che tagliano come lame: perché il matrimonio inteso come atto d’amore, come osare di «mettere la [propria] vita nelle mani di un altro o di un’altra» non ha altro fine che sé stesso, né altra logica che la sua difficile, fragile, dolorosa logica interna. Saldandosi con la visione della famiglia come «cellula della società», la teoria dei «fini» subordina la sussistenza del matrimonio alla procreazione, o alla volontà della procreazione, risolvendo e dissolvendo il dialogo d’amore tra due esseri umani, tra due persone, in una istituzione, in una piccola collettività, in una proiezione fuori del sé. La ribellione dell’autore contro questo straniamento dell’amore a sé stesso si esprime in una tendenziale scissione, a livello linguistico, tra «matrimonio» e «famiglia», una scissione che si esprime nel fatto che la «famiglia», quando è intesa come «fine», e quindi non coincidente con l’amore, è collocata tra virgolette in tutto il corso del saggio. L’amore può, sì, espandersi e fiorire in una famiglia, ma questo fiorire deve essere libero, non imposto, non costrittivo, non punitivo.
Nel tentativo di orientarmi, come storica del matrimonio, nei tornanti di questa prosa di grande vigore e densità, che impone una lettura lenta – in quanto osa mettere in discussione tutta la pastorale cattolica degli ultimi cinque secoli in materia coniugale – confesso di essermi messa alla ricerca di una professione di fede: che cosa vuole Alberto Melloni? E credo di averla trovata, questa professione di fede, nell’epilogo. E poiché essa mi ha scosso, non posso fare a meno di riprodurla qui, come condensato di un percorso di coscienza e autocoscienza che mi appare di folgorante lucidità e intensa sofferenza: «Alla fine del Vaticano II monsignor Helder Camara immaginò un finale spettacolare per il Concilio del XXI secolo. Il papa da solo usciva da san Pietro e domandava perdono dell’autoritarismo ai vescovi, che lo perdonavano e si univano a lui; procedevano ora insieme, papa e vescovi, a chiedere perdono ai laici. Stessa scena. Poi i cattolici chiedevano perdono agli altri cristiani, e questi insieme agli ebrei e poi ai credenti delle religioni; e poi tutti alle donne per un soggiogamento blasfemo e durato dalla notte dei tempi». A questa schiera di esseri umani ai quali la Chiesa Cattolica in capite et in membris potrebbe, dovrebbe, ora chiedere perdono Alberto Melloni propone di aggiungere – questa è una mia ipotesi – la fiumana di coloro ai quali il diritto canonico e una catechesi estraniatasi dal Vangelo hanno reso difficile l’esercizio dell’amore, di quell’amore che non si identifica sempre con la charitas, di quell’amore che è anche – non solo – eros.
Un manifesto/testimonianza come quello che Alberto Melloni ha dato alle stampe ha due coordinate. Una di esse è il pontificato di Jorge Mario Bergoglio, la brezza che spazza via l’aria ristagnante (da secoli?) nei recessi direttivi della Chiesa Cattolica; la seconda è il Vangelo, e in particolare il messaggio di Cristo (per Melloni: Gesù), che va dissepolto, specialmente in un Paese come il nostro, del tutto privo di cultura biblica. «La lingua del perdono e della misericordia e la forza che gli deriva dall’essere il linguaggio del Vangelo e di Gesù» devono essere riscoperte. Il manifesto/testimonianza di Alberto Melloni, sprigionatosi dalla sua lotta corpo a corpo con la Chiesa in cui vive e di cui vive, e anche con la società in cui vive, nasce al punto di intersezione di queste due coordinate. Mi auguro che questo libro, ingannevolmente snello, arrivi nelle mani di Jorge Mario Bergoglio. E posso immaginare che esso sia destinato a essere ristampato, un giorno, con un apparato di note cinque volte più ampio dell’attuale.
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L’ingresso nella grande settimana suggerisce l’idea di un esodo, un cammino di liberazione che permette di passare da un mondo a un altro. Non bisogna mai temere di mettersi in cammino, né di abbandonare per un breve intervallo di tempo quel clima di superficialità nel quale il più delle volte viviamo. Per ritrovare il significato profondo della grande settimana e gustarla in tutto il suo spessore i cristiani devono imparare a dedicarvi tempo. Ci vuole coraggio per sbarazzarsi di tutto il “vecchiume”, ciò che è abitudinario, le pose “inacidite”, i vecchi orizzonti, le solite occupazioni e preoccupazioni, le vecchie angosce… La vera domanda da porsi per il cristiano è: sono disposto a perdere del tempo per poterlo ritrovare come dono alla sorgente? Il cristiano grazie alla liturgia, ai suoi testi, ai suoi canti, alla ricchezza dei suoi segni, accede alla visione della grazia pasquale. La Pasqua nella liturgia diventa per lui visione, precisamente nel senso in cui ne parlano i testi sacri.
La fede del cristiano? Disarmante semplicità: è vivere la pasqua! È questo, è tutto qui… Non è che questo: in ogni istante, in ogni prova, in ogni vertigine che ti coglie. Una volta che tu sai che “pasqua” vuol dire “passaggio”, comprendi che si tratterà costantemente di operare un passaggio: dalla notte al giorno, dal male al bene, dalla sofferenza alla pace, dalla carenza all’abbondanza. O l’inverso. In ogni caso mai come un sovrapporsi statico di esperienze, ma come cammino dinamico. Il credente sa decifrare la forza costante di questa creazione interiore, spirituale, al cuore stesso di tutti gli istanti della propria vita. Pasqua è vivere costantemente questo passaggio in Dio di tutto il nostro essere …
Semplicità. Scopriamo qui la possibilità di accedere a un’altra realtà, completamente trasfigurata, del mondo. In fondo, Cristo riporta la materia alla sua origine di luce, la rivela come in un fotogramma; cosa riconducibile al mistero dello Spirito. Come comprendere altrimenti la parola che ci dice che “Dio è luce” (1Gv 1,5)? Non vi è altra prova che rischiare di persona, come ricorda un proverbio cinese che non mi stanco mai di citare: “La farfalla conosce la fiamma alla quale si consegna”. A chi chiede di conoscere la fede cristiana mi viene sempre voglia di rispondere: “Vuoi conoscere la luce della Pasqua? Celebrala! E lasciati bruciare d’amore fino al culmine, la croce”. La grande settimana celebra questo ritorno alla luce. Il mondo è nato, ci dice la fisica contemporanea, da un’eccedenza di fulgore. Tutto è partito da quella sorgente originaria che è l’atto più bello; immaginiamo quell’istante, un frammento, un’esplosione di luce candida. Nel mistero della resurrezione vi è qualcosa che assomiglia a un ritorno della materia al mistero di Dio. In Cristo l’intero cosmo è tornato alla sorgente, nel suo splendore e nella sua luce.
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ANDREA GRILLO, "Come se non", 30 marzo 2015
Su vatican insider è stata riportata la seguente dichiarazione, trascritta da interviste pubblicate su una rivista francese.
La notizia
Mueller: «È anticattolico delegare la dottrina agli episcopati»
Delegare decisioni dottrinali o disciplinari in materia di famiglia o matrimonio alle conferenze episcopali nazionali “è un’idea assolutamente anticattolica che non rispetta la cattolicità della Chiesa”, secondo il cardinale Gerhard Ludwig Mueller, prefetto della congregazione per la Dottrina della fede.
In un’intervista al settimanale francese Famille chretienne, il porporato tedesco afferma che “le conferenze episcopali hanno una autorità su alcuni temi, ma non costituiscono un magistero accanto al Magistero, senza il Papa e senza la comunione con tutti i vescovi”. In risposta ad una affermazione del cardinale presidente della conferenza episcopale tedesca Reinhard Marx, che aveva rivendicato che il suo episcopato non è “una filiale di Roma”, Mueller afferma che “questo tipo di atteggiamento rischia di risvegliare una certa polarizzazione tra le Chiese locali e la Chiesa universale, superata con i concili Vaticano I e VaticanoII”.
Il rischio, per Mueller, è “applicare alla Chiesa categorie politiche, invece che utilizzare la vera ecclesiologia cattolica”. La Curia romana “non è l’amministrazione di Bruxelles”, “non siamo una quasi-amministrazione né una super-amministrazione al di sopra delle Chiese locali, di cui i vescovi sarebbero i delegati”…
E’ bene commentare questa notizia in modo assolutamente classico:
Videtur quod
- Sembra che sia contrario alla essenza stessa della fede cattolica concepire un episcopato che si differenzia da quanto stabilito e definito dalla Curia Romana
- Sembra inoltre che in ogni ambito della dottrina esista solo un principio e non più principi. Se pertanto uno solo è il principio e il Signore, uno solo deve essere il principio e l’esercizio della autorità dottrinale.
- Se è cattolico riferire la massima autorità al papa, anticattolico è contrastare il papa nella sua autorità, affidando anche solo porzioni di autorità ad altri vescovi, diversi dal vescovo di Roma
Sed contra
- Se cattolico è quanto stabilito dal papa, non può essere anticattolico quanto affermato dal papa.
- Non ogni diversità è negazione. Ad esempio, l’uomo nero non è contro l’uomo bianco, ma è una diversa possibilità dell’essere uomo. Una diversità nella dottrina cattolica non necessariamente deve essere definita anticattolica.
Respondeo dicendum
Rispondo dicendo che cattolico si dice in due modi diversi. Da una parte, in senso generale, significa “universale”; dall’altra, in senso particolare, indica una forma specifica di comprensione della Chiesa cristiana. Dunque, altro è affermare che una proposizione nega la universalità nel primo senso e altro è affermare che sia anti-cattolica nel secondo senso.
Nel primo senso sembra che possa essere anticattolico tutto ciò che smentisce la universalità. Ad es. Si potrebbe dire che sono anticattoliche le lingue vernacole e che solo il latino è veramente universale. Ma si deve riconoscere invece che veramente universale è solo ciò che può essere compreso da sempre, ovunque e da tutti. Questo sembra essere garantito oggi solo dalle diverse lingue e non da una lingua non più in uso.
Nel secondo senso, sembra che cattolico possa essere solo ciò che è uniforme e concorde con l’uso romano della disciplina e della dottrina. Ma si deve riconoscere che cattolico si dice anche di ciò che legittimamente è e deve essere diverso. La medesima famiglia o il medesimo prete ricevono diverse interpretazioni in Africa, in America e in Europa. Cattolico non è una uniformità senza differenze, ma una comunione riconciliata di differenze.
Pertanto non è anticattolico né ciò che garantisce la universalità per tradizione, né ciò che garantisce il ruolo delle differenze nella comunione.
Ad primum. Non è contrario alla definizione di cattolico una differenza di dottrina all’interno del corpo ecclesiale. Le logiche della natura e quelle della cultura influenzano profondamente la dottrina e la disciplina. Le quali possono e debbono ospitare differenze per non smentire la logica del mistero incarnato. Non sembra dunque anticattolico che si prevedano competenze dottrinali riferite a livelli della chiesa gerarchica diversi dal centro romano. D’altra parte, le conferenze episcopali, che rispondono ad una tradizione nazionale, sono il frutto di un mondo diverso sia dall’impero romano o carolingio, sia dalla stato assoluto. Onorare la storia, che muta, non significa confondere ecclesiologia con politica, ma dare alla ecclesiologia la possibilità di “stare al mondo”.
Ad secundum. Come diceva S. Alfonso, ogni principio deve essere a governo della comprensione di ogni fattispecie. Ma quale principio si applichi ad ogni singola fattispecie deve essere stabilito di volta in volta, e non una volta per tutte. Per questo si deve riconoscere che in taluni ambiti dottrinali, una riserva di autorità attribuita alle gerarchie periferiche non solo non contrasta con la universalità, ma è richiesto dalla universalità stessa.
Ad tertium sembra che altra cosa sia il vescovo di Roma e altra cosa la curia romana. Da un lato è evidente che il Vescovo di Roma può stabilire, in forza della sua autorità, una legittima articolazione della autorità dottrinale a livello locale. Da un altro lato, il Prefetto di una Congregazione presiede un organo collegiale e non è dotato, in quanto tale, di una autorità ex se. Così sembra più anticattolico che un Prefetto si arroghi i poteri di un papa, piuttosto che un papa eserciti il suo potere legittimo, anche quando innova la tradizione. Non dovrebbe sorprendere un papa che si spoglia di poteri, delegandoli a confratelli vescovi, mentre dovrebbe sorprendere un Prefetto che desideri non servire il papa, ma essere servito dal papa.
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LUCA ROLANDI, "Vatican Insider", 28 marzo 2015
Al Teatro Carignano di Torino, davanti ad un pubblico folto, nell’ambito dell’edizione 2015 di Biennale Democrazia significativamente incentrata sul tema dei “Passaggi”, si è svolto, promosso dalla Consulta torinese per la Laicità e il Centro Pietro Calamandrei uno dei dibattiti più fecondi e interessanti sul tema “Il papato di Francesco, tra istanze pastorali e questioni di dottrina” Il dialogo, introdotto e moderato dal presidente di Biennale Democrazia Gustavo Zagrebelsky, ha visto protagonisti il prof. Gian Enrico Rusconi, storico e pensatore del mondo laico, e l’arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola. L’amicizia di antica data tra i due interlocutori ha facilitato e reso ancora più denso e profondo il dibattito che si è sviluppato su temi caldi e di frontiera sulla quale l’ antropologia cristiana e laica non sempre trovano un comune denominatore. Sulla centralità dell’uomo e il suo destino e soprattutto, sul ritorno ad un’ermeneutica condivisa o almeno riconosciuta il confronto, ha trovato una felice mediazione nel concetto di “reciprocità cognitiva” mutuato dal filosofo tedesco Jurgen Habermas, già espressa nel suo dialogo con Benedetto XVI.
Nella sua introduzione il presidente di Biennale Democrazia Gustavo Zagrebelsky ha parlato del processo di riforma e controriforma che nella storia dell’umanità, hanno caratterizzato il cammino della Chiesa. Il Concilio Vaticano II e il magistero di Papa Francesco ha provocato i due interlocutori riprendendo il tema della sovranità della coscienza, che mette in difficoltà il principio di autorità e dona all’uomo una forte responsabilità e la frase di Bergoglio “Chi sono io per giudicarvi?”. Il costituzionalista ha inoltre affermato che dunque “non tutto che si può materialmente è lecito moralmente: la dignità e l’inviolabilità della persona e il rapporto con la natura per esempio”, una sfera in cui credenti e non credenti possono e devono dialogare.
Il cardinale Scola ha ricordato come la Chiesa sia ben cosciente di vivere in una società plurale e tendenzialmente conflittuale nella quale convivono mondovisioni molto diverse che deve fare crescere il bene comune e percorsi di condivisione. L’arcivescovo però rifugge dal pessimismo della minorità del cristianesimo nella società, perché la feconda azione dello Spirito e la testimonianza dei fedeli in Cristo è sale e lievito per il mondo di oggi e di domani”, al di là degli studi sociologici e psicologici sull’impossibile misurazione della fede.
Nel ricordare il magistero di Papa Bergoglio, l’Arcivescovo di Milano ha posto l’accento sul cristianesimo, “nella dimensione dell’Incarnazione che supera ogni evocazione ideologica o dottrinaria fine a se stessa, perchè Gesù è via, verità e vita, tutta la concretezza dei temi che uniscono laici e credenti. Dunque la meraviglia dell’incontro con Gesù Cristo e capacità di promuovere la cultura dell’incontro nell’umano. Francesco con la sua eloquenza dei gesti ci trasmette lo stupore dell’incontro con Cristo. Vita e mistero profondo della presenza dello Spirito nella storia, della morte e resurrezione, pilastri di un cattolicesimo fondato sulla Misericordia, l’opzione preferenziale per i poveri e il soffio della Spirito nella storia”. “Francesco – ha ricordato l’Arcivescovo di Milano – ha confermato con docilità e fermezza la dottrina cristiana che vede al centro l’uomo, tutti gli uomini, nessuno escluso, nella difesa della famiglia e della vita dalla sua origine al suo tramonto umano. Tutto ciò comprendendo le debolezze, fatiche e sofferenze, il peccato in un contesto cristiano. Un atteggiamento che va contro la cultura dell’individualismo, dello scarto, dell’economia che può uccidere”. Il cardinale Scola si è poi soffermato rispetto alla teoria del Gender sulla preoccupazione sul piano pedagogico perché “pretende di soppiantare la differenza sessuale. Essa è un problema non solo al cristianesimo ma anche alla psicanalisi all’indifferenza e indistinzione dell’io personale, dimensione intrapersonale. Differenza e non diversità, utilizzati come sinonimi in modo improprio”. Sul tema della creazione Scola ha ricordato come il rapporto tra naturale e creazione sia illuminata da una espressione di San Giovanni Paolo II che dice un oltre: “Nella biologia della generazione è iscritta la genealogia della persona”.
Il professor Rusconi ha iniziato il suo dialogo riconoscendo a papa Francesco una capacità innata di comunicare con le persone, attraverso il contatto diretto e spontaneo. Naturalmente tutto ciò, “nella sua strategia comunicativa ha cura di ribadire la certezza dei valori tradizionali. Non è casuale che recentemente si sia espresso in modo fermo sul tema dell’aborto, della eutanasia, della validità dell’«obiezione di coscienza» dei medici a questo proposito, inserendo significativamente queste dichiarazioni nel contesto dei concetti a lui cari di “compassione» e di “misericordia”. E sulle questioni confronto e distanza tra mondo laico e cattolico, in parte affrontate al Sinodo sulla Famiglia il confronto si dilata e diventa più difficile: eucarestia ai divorziati risposati, omosessualità, aborto, eutanasia, testamento biologico, tema dei diritti. Rusconi non ha toccato evidentemente lo spazio specifico della disciplina ecclesiale vigente sul matrimonio e sul senso del sacramento eucaristico, ma ha posto l’accento sulla difficoltà nella società post moderna di descrivere compiutamente il tema del diritto naturale: “cosa sia “naturale” per l’uomo e per la donna nella loro espressione sessuale e quindi nella loro proiezione nella dimensione religiosa. Ciò che le accomuna è la problematica della sessualità in tutti i suoi aspetti, che sta monopolizzando di fatto la teologia morale della Chiesa. Tocca le radici di quella centralità della “famiglia” attorno a cui la Chiesa sta giocando la sua partita più difficile”.
[Nota di Christian Albini. C'è un nodo antropologico e teologico essenziale che riguarda l'articolazione di tre piani: biologia, natura e Vangelo. Secondo una certa impostazione, biologia = natura = Vangelo; sono coincidenti. C'è però un altro approccio, per il quale il biologico, nel definire la natura, è in relazione con la cultura e con il Vangelo che introducono altri elementi. Questo è un tema da approfondire e chiarire.]
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Il pastore PAOLO RIBET intervistato da Matteo De Fazio, Riforma.it, 26 marzo 2015
Da giorni si parla dello storico incontro che avverrà tra papa Francesco e le chiese valdesi il 22 giugno 2015 a Torino. Una prima assoluta, nessun papa aveva mai fatto visita ai valdesi, non sempre considerati ad un pari livello teologico dai predecessori di Bergoglio. L'incontro avverrà in una sede importante, il tempio di corso Vittorio a Torino, uno dei primi edificati dopo la libertà civile e politica concessa ai valdesi nel 1848. «Una rivendicazione di volontà di dialogo in un mondo che vuole spaccarsi – dice Paolo Ribet, pastore a Torino – con questo incontro diciamo che di muri non ne vogliamo avere».
Come siamo arrivati a questo incontro?
«Tutto nasce sicuramente dalla figura di questo papa, che si attira le simpatie della gente: aveva già visitato, in forma privata, una chiesa pentecostale a Caserta qualche tempo fa. Aveva mandato un messaggio di saluto allo scorso Sinodo Valdese, poi c’era stato un messaggio del Segretario della Commissione del dialogo fra i cristiani della Cei, che era stato molto apprezzato. A seguito di tutto ciò la Tavola ha pensato di fare un invito formale al papa a visitare la Chiesa valdese. Negli accordi tra Uffici Vaticani e Tavola si è deciso che l’occasione da cogliere fosse la visita a Torino del 21 giugno, in occasione dell’ostensione della Sindone e della ricorrenza dei 200 anni di don Bosco. Il bello è che non ne abbiamo saputo nulla fino a 15 giorni fa, quando il moderatore Bernardini ci ha parlato di un invito accettato. La cosa ci fa molto piacere, perché Torino è una chiesa valdese un po’ particolare: è la prima e la più grande al di fuori delle Valli, se consideriamo Pinerolo valligiana, è il primo tempio costruito dopo i diritti civili del 1848, ha una posizione particolarmente centrale, è apprezzata e conosciuta. Per esempio, ieri, alla sinagoga ebraica, a 200 metri dalla chiesa valdese, in occasione della manifestazione per ricordare Emanuele Artom: c’era il sindaco di Torino Fassino, che mi ha detto: “ho saputo che il papa viene da voi”. Evidentemente la cosa ha colpito, anche nella fantasia delle persone: per la simpatia umana del papa, che esce dai rigidi schemi pontifici, e poi perché per la prima volta entra in una chiesa valdese».
Una reazione forte è arrivata anche dal mondo protestante: come legge questo entusiasmo?
«Sicuramente perché è un fatto inatteso e sorprendente. Colpisce l’apertura e la capacità di mettersi in relazione di papa Francesco. Poi perché è il riconoscimento dell’esistenza della nostra chiesa: con Benedetto XVI non fu facile, quando ribadì in alcuni documenti che le chiese riformate avevano solo parte della verità, a differenza di quella cattolica. Il fatto che il papa venga da noi vuol dire che quanto meno c‘è un riconoscimento personale: può inaugurare, anche da parte nostra, una maggiore sensibilità ecumenica. Mi sono arrivati molti messaggi entusiasti, non mi aspettavo che ci fosse una reazione di interesse di questo tipo».
Cosa succederà il 22 giugno?
«È l’evento in sé che è importante: nel dettaglio ancora non sappiamo, ma saranno le 9 del mattino del lunedì, e avremo un’ora e un quarto, tempo in cui non si possono fare grandi cose. Ci saranno dei saluti, e delle parole molto semplici: sulla bellezza di persone che si riconoscono diverse però sanno che possono stare insieme e costruire qualcosa di importante. In questo tempo in cui si dice che le religioni dividono, spaccano, uccidono, i responsabili di due chiese, il papa e il moderatore, si incontrano e dicano che hanno piacere a stare insieme e sono pronti a discutere le cose su cui non andiamo d’accordo, credo che sia una cosa importante. Una rivendicazione di volontà di dialogo: in un mondo che vuole spaccarsi noi diciamo che muri non ne vogliamo avere».
Il papa sarà a Torino per l’ostensione della Sindone: le differenze su cui discutere ci sono ancora.
«Il gesto è importante, al di là dei discorsi: forse qualcuno ci guarderà come quelli che hanno accolto papa Francesco, e altri guarderanno al papa come colui che è andato anche dai valdesi. Certi muri o durezze che ci possono essere tra le chiese cristiane forse si possono abbattere. La diversità non è un male, perché la verità è sfaccettata, non è mai una lastra unica, ma un diamante dalle mille facce. Ognuno può coglierlo da una parte diversa. Noi siamo afferrati dal Signore e chiamati a predicare nella fraternità. Gesti come questo sono un piccolo passo nella direzione giusta».
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JESUS, marzo 2015
Rubrica La bisaccia del mendicante
di ENZO BIANCHI
Al sorgere del ricordo di alcuni eventi o insegnamenti ricevuti nella mia giovinezza, mi assale il sentimento di aver vissuto una vita in un mondo che non solo non esiste più, ma che appare oggi strano se non inverosimile. Così, in questi giorni quaresimali, mi ritorna in mente come allora fosse frequente la preghiera per ottenere il dono della lacrime: sì, si pregava per piangere! Oggi invece non vediamo facilmente le persone piangere, perché le lacrime appaiono come un segno di fragilità, qualcosa di cui vergognarsi, che comunque non va mostrato perché giudicato come cosa da bambini o da donne: gli adulti sanno dominare le lacrime e hanno il dovere di vivere e comportarsi siccis oculis, “con gli occhi secchi”.
In realtà, uomini e donne continuano a piangere e non credo a quanti affermano che le lacrime sono frequenti solo in alcune epoche come il romanticismo: forse è vero che le arti, la pittura, la musica non le testimoniano in tutte le epoche, ma il cuore umano sa piangere sempre. Certo, nella misura in cui si riduce il bene al benessere e il male al malessere, molti si impegnano a evitare accuratamente la possibilità della sofferenza fino a rimuoverla e negarla: di conseguenza, non si “lasciano andare” a piangere, soprattutto di fronte agli altri, eppure a volte anche costoro conoscono il pianto e il suo imporsi.
Le lacrime sono un’espressione del nostro corpo, anzi dei nostri sensi, soprattutto di quel sesto senso di cui siamo provvisti noi essere umani: quel senso che è arte dell’essere presente all’altro e del sentire la presenza altrui. Le lacrime sono eloquenti, sono un linguaggio silenzioso: non sono parola ma nemmeno gesto, affiorano dagli occhi e, significativamente, scorrono anche dagli occhi dei non vedenti, quasi a dire che l’occhio, prima di avere come funzione la vista, ha insita in sé la possibilità delle lacrime. Le lacrime non sono sempre linguaggio di dolore o di collera: possono essere lacrime di gioia, di sobria ebbrezza, di pace... Possono essere un grido, un’invocazione di aiuto o una protesta, ma anche l’espressione di una gioia intima, della ferita causata da una presenza amorosa, di una pace – con se stessi, con gli altri, con le creature che ci attorniano – che ci sorprende e ci inebria.
Io mi sento di fare l’elogio delle lacrime, e ancora oggi, quando sento che i miei giorni rischiano di scorrere siccis oculis, allora recito l’orazione per chiedere il dono delle lacrime. E quando sopraggiungono come pura gratuità, le lascio scorrere e cerco di non temere se altri vedono. Del resto, cosa vedono in realtà? Ciò che sto vivendo di dolore o di gioia... Sì, quando si hanno le lacrime agli occhi, lo sguardo è come velato ma discerne più in profondità: la visione è “ante et retro oculata”, si vede davanti e di dietro, si vede “altrimenti”.
Un cristiano, poi, nella preghiera dei salmi trova tante volte le lacrime: lacrime che sono pane che uno mangia, lacrime che Dio raccoglie in un otre perché non le dimentica ma le considera preziose, lacrime di pentimento per il male fatto, lacrime di esultanza che sgorgano come danza di gioia... E come dimenticare che anche Gesù ha pianto, svelandoci che in lui Dio ha conosciuto i sentimenti umani fino a piangere: ha pianto sull’umanità piangendo su Gerusalemme, ha pianto per amore del suo amico Lazzaro, ha pianto per la propria sofferenza e morte. La Lettera agli Ebrei (5,7-8) ci dice anche che Gesù piangendo ha imparato l’obbedienza...
Papa Francesco nel recente viaggio nelle Filippine ha incontrato una donna che piangeva e subito dopo ha esclamato semplicemente: “Impariamo a piangere... se non imparate a piangere non potete essere buoni cristiani!”. Cioran affermava che “nell’ultimo giudizio saranno pesate solo le lacrime” e Camus ribadiva che “nessuna lacrima deve andare persa, nessuna morte deve accadere senza una risurrezione”.
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Un nuovo intervento dello psicologo Alberto Pellai sulla questione del gender, dopo lo scritto che avevo già riportato la scorsa settimana, dal suo profilo Facebook.
Il mio primo post dedicato a questo tema ha generato una reazione enorme. Lo hanno visualizzato più di 250.000 persone, lo hanno condiviso numerose migliaia di lettori e commentato più di 500 persone. Quindi, i numeri che avevo fornito come pre-requisito per continuare il dibattito e promuovere ulteriori approfondimenti sul tema sono stati tutti superati. Ecco allora un secondo post. Anche in questo caso servono circa 15 minuti per arrivare in fondo. Se non li avete fermatevi qui.
Nel dibattito che io stesso ho generato, ho avuto modo di constatare alcuni elementi che ricorrono continuamente.
In molti hanno voluto ribadire che di per sé non esiste un’ideologia del gender. Molti hanno contestato nel precedente post le mie frasi: “io non conosco l’ideologia del gender e personalmente come padre di quattro figli io non l’ho mai incontrata sulla mia strada” così come l’altra mia frase “così come l’ideologia del gender potrebbe fare male quando usata male e a sproposito, io penso che così anche l’ideologia di chi è contro l’ideologia del gender possa essere ugualmente pericolosa e dannosa”.
Forse queste frasi non erano completamente chiare, e allora ci tengo a ribadire che per me non esiste un’ideologia del gender e che in generale, in educazione, le ideologie non servono a nulla e soprattutto rischiano di fare molti danni. Nei primi mesi della polemica sul “gender a scuola” ho cercato di capirne di più. Ho scoperto però che in molti casi ciò che viene chiamata “ideologia del gender” è qualche citazione tratta dal concetto di “gender studies” che è una disciplina presente da decenni in moltissimi curricola di studi universitari in tante nazioni del mondo. I gender studies, come mi ha scritto molto bene in una mail privata la dottoressa Elena Liotta (che ringrazio): “nascono storicamente e culturalmente in campo anglosassone, come area di studio e ricerca sulle donne, per ritrovare il rispetto di una diversità bistrattata e ignorata anche dalla storia. Oggi si è ampliato ad altre situazioni socio-affettive partendo dall’antico destino dell’omosessualità, riconosciuta o negata a seconda dei secoli e delle culture. Non si può ridurre un ambito molto ampio e vario e ricco di cultura definendolo erroneamente come 'ideologia gender' (io non ho mai sentito questa locuzione). Così facendo il messaggio perde competenza ed efficacia. Non esiste una ‘teoria del gender’! Non è un discorso chiuso, finito, ma in sviluppo, con tante diverse interpretazioni e pensatori. E si basa sul rapporto tra potere, autoritarismo, sistemi totalitari … democrazia. “.
Concordo con queste parole di Elena Liotta e confermo che, per ciò che ho compreso io dei “gender studies”, il tema al centro degli stessi non è l’annullamento delle differenze biologiche tra uomo e donna, bensì l’eliminazione di un “gender gap”, che da sempre propone alla donne una situazione di svantaggio sociale e relazionale, spesso fondata su un cumulo di stereotipi culturali e sociali che si auto-mantengono e si rinforzano a meno che non vengano messi in discussione e criticati dai processi educativi. Inoltre, è proprio attraverso i processi educativi che si può sin dall’età più precoce apprendere un nuovo modo di pensare al maschile e al femminile che non sia discriminatorio o svantaggioso per uno dei due generi. Questo avviene, però, nel riconoscimento delle differenze biologiche e non nell’annullamento delle stesse, come viene spesso detto da chi afferma che la “teoria del gender” mina alla base le certezze su cui da sempre uomo e donna si riconoscono come essere differenti e complementari.
Un’altra cosa che mi ha colpito molto nei commenti al post e nelle lettere private che ho ricevuto è la convinzione che i bambini sono bambini e che vivono un tempo della vita dove non è necessario precocizzare alcun genere di conoscenza e approfondimento sul tema della sessualità. Fare questa cosa, ovvero portare questo tema nella loro vita, significherebbe – per alcuni - rovinarne l’innocenza, anticipare la dimensione della sessualità in modo tale da “sporcare” la loro infanzia, traumatizzarli, insomma….fare loro del male. In questo senso, perciò, anche l’educazione sessuale – e a questo punto mi verrebbe da dire qualsiasi educazione sessuale – fatta a scuola diventa pericolosa, perché fa proprio questo: porta ad un’età troppo precoce contenuti che, in base a questa assunzione, non sono fase-specifici e che quindi non possono che fare danno a chi sta crescendo.
Ora è chiaro che io - che faccio questo di mestiere, ovvero mi occupo di educazione emotiva, affettiva e sessuale in età evolutiva - non posso condividere questa visione dei fatti. Sarebbe come dire: so che sto facendo un lavoro che è pericoloso e che fa danni. Invito tutti coloro che pensano così a guardarsi intorno: siamo circondati da immagini pornografiche, viviamo in una società ipersessualizzata e per quanto un adulto si sforzi di proteggere un figlio da tutto questo, non ci riuscirà mai. Soprattutto, ciò che mi colpisce, è quello che avviene non tra adulti e bambini, ma tra bambini e bambini. I quali, sollecitati da stimoli che li confondono o che li eccitano, non avendo a disposizione adulti competenti, spesso cominciano a fare “stupidaggini” tra di loro, a scherzarsi o provocarsi con allusioni, parole, contenuti e temi sempre più sessualizzati. Nessun figlio è indenne da questo. Ora, un figlio che si trova provocato, eccitato e confuso all’interno del gruppo dei pari, ha solo due possibilità. Gestirsi tutto questo in autonomia oppure chiedere aiuto ad adulti di riferimento. Ma se gli adulti di riferimento sono quelle persone che sostengono in modo molto fermo che ad un bambino non si deve “anticipare nulla” riguardo al tema della sessualità, perché è troppo piccolo, la conseguenza diretta è che quel bambino non si rivolgerà mai agli adulti di riferimento, perché da loro ha imparato che questi temi sono “tabù”. Si proprio così: “tabù”. Perché non c’è un momento giusto e un momento sbagliato. Non esiste un giorno in cui si può cominciare ad educare.
La sessualità non parte da oggi, nella vita dei bambini. C’era già ieri e ci sarà sempre, anche domani e dopodomani. E questo vale sin dal primo giorno di vita. Presumo che molti degli adulti che stanno leggendo, si ricordino che cosa è successo a loro quando erano bambini, preadolescenti e adolescenti. La loro mente era piena di domande che avevano a che fare con la sessualità. Già a 9 o 10 anni questo è successo a molti di noi. Eppure, è molto probabile che quasi nessuno abbia fatto quelle domande o abbia provato ad approfondire il tema con gli adulti di riferimento. Il motivo: in modo implicito, i nostri genitori ci avevano insegnato che loro non avevano nessuna voglia di essere i “risponditori” dei nostri dubbi e quesiti sulla sessualità. Così, quasi nessuno di noi può dire di aver avuto genitori che siano stati un riferimento educativo in questo ambito. Mi capita spesso di incontrare genitori che non fanno educazione sessuale perché il loro figlio ancora non chiede nulla. Se domando: “quanti anni ha suo figlio?”, loro mi rispondono: “12, 13, 14 a volte addiritura 15 o 16”. Ma vi sembra possibile che un figlio di questa età non abbia nulla da chiedere? E secondo voi, dove ha imparato a non chiedere nulla? Chi gli ha insegnato che agli adulti è meglio non fare certe domande? La mia impressione è che tutto il mondo adulto, spesso, dietro ad una parvenza di preoccupazione educativa, si tuteli e si difenda dietro ai falsi miti di: “E’ troppo presto” e “I bambini sono bambini” semplicemente perché noi stessi, per primi, non abbiamo elaborato bene questa dimensione nella nostra vita e nel nostro percorso di crescita. E di conseguenza non ci sentiamo tranquilli, disponibili e sicuri nell’affrontare il tema con i figli. Tra l’altro, molti progetti scolastici – direi quasi tutti – vengono presentati ai genitori e queste riunioni sono sempre occasioni per discutere, dialogare, approfondire e generare un’alleanza tra adulti. Ultimamente sono diventate invece occasioni per scontrarsi e confliggere. Di questo, sono certo, i nostri figli non avranno alcun beneficio.
Come ho già scritto nel mio primo post, io non mi spavento di nulla. Non temo quello che c’è nel mondo fuori, perché credo e spero che i miei figli, qualsiasi cosa incontrino fuori – nel mondo – che li spaventa, disorienta o lascia pieni di dubbi e pensieri, poi vengano da me per condividerla e approfondirla. E questo posso dirlo a voce alta, mi succede spesso.
Vorrei che gli adulti in genere fossero meno spaventati dall’idea che portare questi temi a scuola sia pericoloso. E spesso siano anche fiduciosi e tranquilli del lavoro che facciamo noi educatori, psicologi e medici, spinti a questo non dal desiderio di fare del male, ma da quello di sostenere e proteggere la crescita. Nessuno di noi è perfetto e nessun intervento risolverà mai del tutto la questione. Ma vedere in classe un adulto, competente e autorevole che non ha timore dell’argomento e che lo sa affrontare in modo non ideologico, ma educativo, è una grande risorsa per i nostri figli. Sempre e comunque.
L’affermazione che solo la famiglia si deve occupare di questo a me sembra riduttiva e fuori luogo. Perché in realtà il resto del mondo se ne sta occupando, tranne – quasi sempre – la famiglia e la scuola. Le ricerche effettuate con gli adolescenti dicono che, secondo loro, le informazioni sulla sessualità sono arrivate nella loro vita soprattutto attraverso gli amici e i mass media. All’ultimo posto c’è la famiglia. E di questo dobbiamo imparare a prenderne atto. E nei mass media i nostri figli trovano quasi sempre il peggio del peggio.
Tutti i giorni, al pomeriggio, un milione di nostri figli si sintonizza su un network radiofonico che trasmette un programma dove la sessualità è merce da barzelletta, dove ogni stereotipo omofobo e sessista viene messo in scena ogni singolo minuto. Dove le donne vanno scopate e gli uomini le trombano senza alcun altro genere di approfondimento. Ripeto un milione di persone ascolta questo programma ogni giorno per due ore per sei giorni alla settimana. Così come quasi un 13enne (ripeto 13enne) su due ammette di aver già visitato siti pornografici. Ecco di fronte a questi due esempi, vi invito a riflettere se davvero fare educazione sessuale a scuola sia uno spreco di tempo e di energie, o addirittura un modo usato da certi sedicenti esperti per sessualizzare precocemente il percorso di crescita. Noi psicoterapeuti vediamo sempre più spesso bambini delle elementari che visitano siti pornografici, preadolescenti che fanno sexting. E tutto avviene dentro a famiglie che si ritengono attente e competenti. La frase più frequente dei genitori che li accompagnano nello studio dello psicoterapeuta dopo aver scoperto cosa succedeva nella camera da letto dei figli connessi al computer è : “IO non me lo sarei mai immaginato che mio figlio/a stesse facendo questo genere di cose”.
Ecco, è bene che noi genitori impariamo ad immaginarci che i nostri figli stanno vivendo in un tempo molto complesso. Pieno di opportunità, ma anche pieno di sollecitazioni che non sono in grado di gestire. E che se qualcuno che fa questo di mestiere dice che l’educazione affettiva, emotiva e sessuale è uno strumento davvero necessario in questo contesto socio-culturale, sarebbe giusto imparare ad ascoltarlo e a verificare se davvero quello che dice ha senso oppure no. Invece troppo spesso, di questi tempi, ci si sente sotto processo dal primo momento. Io sono davvero rimasto colpito nel fare conferenze di fronte a persone che si sedevano su banchi sui quali venivano appoggiati testi della Bibbia e della Costituzione e poi contestavano il relatore a suon di citazioni di articoli di legge e di passaggi della Bibbia. Scusatemi, ma questo approccio è davvero screditante, perché chi fa interventi educativi non vuole agire contro nessuno e tanto meno contro Bibbia e Costituzione.
Credo che dietro a tutta questa fatica, ci sia la questione –mai risolta per tante persone – associata a come l’omosessualità viene pensata, analizzata e vissuta nella nostra società. Come padre penso che l’omosessualità non può essere né prevenuta, né educata. L’omosessualità quando c’è, c’è. Ho quattro figli e non c’è nulla che io possa fare per renderli eterosessuali, così come non c’è nulla che io possa fare per non renderli omosessuali. Ribadisco che, spesso, in adolescenza la domanda che molti si fanno sul proprio orientamento sessuale sia una domanda più che lecita e occorre che un ragazzo/a possa farsela in un clima dove gli adulti sanno stare sereni e sanno essere adulti per davvero. Può dare dispiacere che un figlio sia omosessuale, ma questo non toglie che quel figlio ha il diritto di essere ciò che è. E’ giusto pensare che, se io adulto e genitore mi sento sopraffatto e travolto dalla dichiarazione di mio figlio che si racconta omosessuale, io mi rivolga ad un adulto che ci aiuti tutti a fare chiarezza. E non che curi, ciò che curabile non è. Perché non stiamo parlando di una malattia. Dire queste cose però a molti fa paura. Ma forse il lavoro da fare è sulla paura che ci prende quando diciamo queste cose e non sulla soppressione, stigmatizzazione o falsa ideologizzazione delle cose che ci impauriscono così tanto.
Io non mi spavento di fronte a tutte queste sfide. Ho una vita personale e professionale che mi autorizza a non avere paura delle mie idee. E non ho alcuna ideologia da difendere.
Dopo il mio precedente post ho ricevuto decine di inviti a partecipare a manifestazioni, convegni, dibattiti. A firmare petizioni e scrivere articoli. Non ho risposto a quasi nessuno. Non accetterò nessun invito su dibattiti pubblici sull’ideologia gender. Perché già svolgo il mio dibattito personale su questa pagina e in ogni minuto in cui continuo a fare il mio lavoro. Lavoro che faccio da sempre. Probabilmente tra qualche giorno la cosa che farò è una lettera che invierò ai principali media nazionali, di tutti gli orientamenti. Non sono ancora sicuro di farlo.
Per deciderlo, ancora una volta verificherò quali reazioni genererà questo post. Che vi invito a commentare e condividere. Perché dialogare è il miglior modo per far vincere le idee e non alimentare ideologie pericolose.
Ho passato molto tempo a rispondere, durante le ultime due settimane a molte persone che mi hanno scritto in privato sulla mia mail. Ma ora non mi è più possibile farlo. E preferisco che ogni dibattito sia pubblico e che ognuno dica a voce alta ciò che vuole dire. Perciò annuncio già subito che io leggerò tutto ciò che mi verrà scritto in pubblico e in privato, ma questa volta non risponderò più a nessuno. Ciò che ho da dire è in queste parole. Spero chiare.
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intervista a Jon Sobrino, a cura di Nicolas Senèze
in “La Croix” del 21 marzo 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)
Trentacinque anni fa, il 24 marzo 1980, veniva assassinato mons. Oscar Romero. Collaboratore e amico di colui che sarà beatificato il 23 maggio, il gesuita spagnolo Jon Sobrino è anche l'autore di un'opera teologica nel filone della teologia della liberazione, di cui le edizioni du Cerf hanno appena tradotto la parte cristologica più controversa.
Padre Jon Sobrino lo riconosce subito: “Io non sono povero. Per ragioni di salute, non mi hanno mai autorizzato ad abitare con i poveri: di fatto, ho conosciuto pochi poveri”. Un paradosso per uno dei capofila della teologia della liberazione, che vuole essere appunto una teologia di indignazione e di impegno dalla parte dei più poveri! “Ma cerco di esprimere la voce dei poveri: di coloro che sono perseguitati, o che hanno dovuto lasciare il proprio paese, che sono oppressi dalla fatica. Lascio che questa sofferenza mi coinvolga per fare il mio lavoro teologico”, riassume. La sua opera cristologica è appena stata tradotta in francese, circa venticinque anni dopo la sua prima pubblicazione in spagnolo (1).
Fu al ritorno in Salvador, dopo gli studi negli Stati Uniti e in Germania, che il giovane gesuita spagnolo scoprì i poveri. “Avevo studiato teologia in Europa senza accorgermi di quello che stava succedendo in America Latina con Gesù Cristo”, confida, di passaggio in Francia. Otto anni dopo l'assemblea del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) di Medellin (Colombia, 1968), il continente è in piena ebollizione teologica. “Il documento di Medellin cominciava con queste parole: 'La miseria come fatto collettivo è un'ingiustizia che grida al cielo'”, ricorda padre Sobrino. È stato sentito il clamore dei poveri. In quell'irruzione dei poveri, molti credenti hanno percepito l'irruzione di Dio. Un Gesù reale aveva fatto irruzione con contorni propri e con la capacità di plasmare non solo la teologia e la devozione, ma la realtà dei credenti, delle comunità”.
Jon Sobrino si mette allora al seguito dei grandi nomi della teologia della liberazione, come Gustavo Gutierrez Merino, Leonardo Boff o il gesuita Ignacio Ellacuria, più anziano, basco come lui e anch'egli professore all'Università centro-americana di San Salvador (UCA).
“Molti vescovi, preti e fedeli si rendevano anche conto che, in questo mondo, essere umani, essere cristiani, essere membri della Chiesa, significava cercare la giustizia e vivere la povertà”, ricorda il gesuita per il quale gli anni 80-90 furono anche “un'epoca di martiri”: mons. Gerardi in Guatemala, mons. Angelelli in Argentina e, naturalmente, mons. Romero.
Nel 1977 padre Ellacuria lo mette in relazione con Oscar Romero che è appena stato nominato arcivescovo di San Salvador e che, inizialmente conservatore, evolve a poco a poco di fronte alla realtà della repressione. Divenuto il collaboratore e l'amico di colui che sarà beatificato il 23 maggio, Jon Sobrino lavorerà accanto a lui fino al suo assassinio, il 24 marzo 1980. Ma anche lui è un sopravvissuto. Il 16 novembre 1989, infatti, sei suoi confratelli gesuiti dell'UCA, con la loro domestica e la di lei figlia sedicenne, cadono sotto le pallottole dei militari. Jon Sobrino verrà a conoscenza del massacro in Tailandia dove faceva delle conferenze. “La mia famiglia, i miei amici”, riassume semplicemente, un quarto di secolo dopo, non potendo sentire i loro nomi senza togliersi gli occhiali per asciugarsi discretamente le lacrime. Un breve momento di commozione, prima di passare a elencare le altre vittime della repressione militare.
“Dal 1977 in Salvador, 17 preti e 5 religiose sono stati uccisi, come centinaia di cristiani e cristiane, ricorda. Hanno dato la loro vita per difendere i poveri e gli oppressi. Nelle loro vite e nelle loro morti, quei cristiani e quelle cristiane sono stati simili a Gesù. Noi li chiamiamo i “martiri 'gesuizzati'. Molti altri, decine di migliaia, sono stati uccisi, vittime innocenti e indifese. Noi li chiamiamo 'il popolo crocifisso'”. Di questo popolo crocifisso, Jon Sobrino ha fatto la base della sua teologia della liberazione divenuta una vera teologia del martirio.
“È stata condotta una guerra ostinata a questa teologia, riconosce Jon Sobrino. Fin dai miei primi articoli su Gesù Cristo e sul Regno di Dio, ho avuto dei problemi con Roma: parlare di Gesù di Nazareth non era apprezzato dalla Congregazione per la dottrina della fede”. Nel 1983, quando il colombiano Alfonso Lopez Trujillo diventa cardinale (sarà il futuro presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia), annuncia chiaramente di voler “farla finita” con dei teologi come Gutierrez, Boff o Sobrino. “Quello che veniva attaccato non era né Boff, né Gutierrez, né Sobrino, ma Gesù di Nazareth, Dio che è uscito con i poveri e che ha ascoltato il loro grido”.
Nel 2006, la Congregazione per la dottrina della fede emetterà un avvertimento, sottolineando che “certe proposte” dei suoi due libri cristologici “non sono conformi con la dottrina della Chiesa”. “Ma non sono mai stato condannato. Niente nel documento romano dice che sono eretico o che non ho più diritto di insegnare”, insiste Jon Sobrino che non ha mai accettato di firmare il testo romano. Il coro di proteste del mondo teologico di fronte alla notifica romana sarà tale che l'autorità stessa della congregazione è oggi rimessa in discussione, il che permette del resto alle Éditions du Cerf di realizzarne oggi la traduzione francese senza reali problemi...
Ma, venticinque anni dopo la pubblicazione del primo volume, quei libri hanno ancora una pertinenza? “Credo che il messaggio di quei libri sia quello di coloro che gridano, che sperano e che non scrivono”, spiega Jon Sobrino. L'America Latina però è cambiata. “La guerra civile è terminata, ma ci sono sempre tanti morti e tanta violenza. Quattordici morti violente al giorno in Salvador, ricorda. La gente non ha lavoro, è sottoposta alla violenza delle bande, è costretta ad emigrare”. Dopo la scrittura dei suoi libri, pentecostali ed evangelicali sono entrati in forze nel paesaggio religioso.
“Un vero problema per me, riconosce. Abbiamo visto sorgere tra noi dei dirigenti di tutti i tipi: predicatori, pastori, cantanti, guaritori, ma, per dire le cose con rispetto, danno spesso l'impressione di avanzare come greggi senza pastore. Mancano dei Romero, dei Gerardi”. Deplora che la Chiesa cattolica, in questi ultimi anni, abbia spinto i fedeli “in una religiosità più di devozione che di impegno”. “Capitemi bene, spiega. Si avrà un bel conservare un Dio, un Cristo e uno Spirito, conservare la preghiera, la mistica e la gratuità – tutto questo rivalorizzato a giusto titolo, almeno teoricamente -, ma senza Gesù di Nazareth si vede scomparire ciò che c'è di centrale nel cristianesimo”.
Per lui, se la Chiesa “va male”, è proprio perché ha diluito le intuizioni di Medellin. “Attorno a Medellin, credo di poter dire che la Chiesa, dalla gerarchia fino ai contadini 'si è comportata bene' con Gesù di Nazareth, o almeno ha cercato di farlo con serietà”, propone. Dopo “ha prodotto altre forme di Chiesa che davano meno fastidio”, riconosce. È questo che spiega, a suo avviso, il motivo del ritardo della beatificazione di Mons. Romero: “La si giudicava inopportuna perché era un modello di vescovo che dava fastidio ad altri vescovi”. Quindi la Chiesa deve tornare a questa centralità dei poveri avviata a Medellin. “'Andar male' significa tirarsi indietro, e 'andar bene', significa, fondamentalmente, tornare a Medellin, riassume. Il che significa sicuramente 'tornare a Gesù di Nazareth'. 'Non tornare' a Gesù è impoverirsi, e non voler tornare a lui sarebbe peccare”.
“La Chiesa non deve preoccuparsi di ciò che può fare, ma di ciò che deve fare: è un problema di morale, non di analisi”, afferma colui che ritorna continuamente alla figura di Romero. “Molto tempo fa, un contadino raccontava: 'Mons. Romero diceva la verità, ci difendeva, noi poveri, e per questo lo hanno ucciso'. Ecco quello che deve fare la Chiesa. Dire la verità, dire che quello che succede oggi è un disastro. Difendere i poveri, cioè non solo aiutarli, ma essere al loro fianco contro gli oppressori, chiunque essi siano”. Quanto al martirio, è per lui l'orizzonte di chi si conforma a Gesù di Nazareth: “Gesù non è morto, è stato ucciso, ricorda. Senza la croce, la resurrezione non sarebbe che la riviviscenza di un cadavere. Gesù si è mostrato misericordioso. Non ha solo aiutato e dato sollievo, ma ha preso le difese delle vittime. La misericordia che arriva alla croce aggiunge due caratteristiche a quella del buon Samaritano: è conflittuale ed è coerente fino alla croce”. Trentacinque anni dopo l'assassinio, il teologo interpella ancora la Chiesa: “È pronta oggi a correre questo rischio di Gesù che è stato ucciso?”
(1) Jésus-Christ libérateur. Lecture historico-théologique de Jésus de Nazareth, e La foi en Jésus-Christ, Éditions du Cerf.
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Un mio articolo da "Chi cercate?", 23 marz0 2015
La Via Crucis segue il cammino dei profughi. A Crema, l’Unità Pastorale di San Bartolomeo-San Giacomo ha dato vita, venerdì 20, a una Via Crucis per le strade le cui stazioni sono state accompagnate dal cammino dei profughi africani accolti dalla Caritas Diocesana: Benedict e John Paul dalla Nigeria, Mody e Kombouna dal Mali, Gagna e Banta dal Senegal.
Tra i fratelli più piccoli con cui il Signore s’identifica oggi, ci sono proprio coloro che percorrono strade di miseria e disperazione. Spesso sono oggetto di sospetti e paure, senza che si conoscano le loro vicende. Le stazioni di questa Via Crucis urbana, ma con l’orizzonte spalancato sul mondo, sono state quattro. La condanna a morte corrisponde a quelle situazioni di guerra, terrorismo e miseria che costringono alla fuga, a intraprendere avventure senza rete, di cui non si sa l’esito. Sono strade su cui sono frequenti le cadute, le insidie, i pericoli, come quando si attraversa il deserto per giorni e giorni a piedi e ci si ritrova senza cibo e acqua; quando ci si ritrova in un altro Paese senza soldi e documenti e si viene arrestati, rimanendo in prigioni fatiscenti per un anno o forse più; quando si viene spinti sulle spiagge della Libia e costretti con la minaccia delle armi a imbarcarsi sui gommoni per traversate nell’ignoto.
Grazie al cielo, ci sono anche i cirenei, amici e compagni di un’ora incontrati per caso, che danno pane, aiuto e riparo, magari nel bagagliaio di un’auto per nascondersi da minacce incombenti; i marinai italiani che ti raccolgono in mare. E poi c’è la morte in croce, la morte vista in faccia, la morte di tanti compagni per fame sotto il sole cocente del deserto, uccisi a sangue freddo da pallottole nemiche, morti e dimenticati nelle prigioni, affogati tra le onde dopo essere stati alla deriva, per di più ignorati da navi di passaggio. Sì, ci sono momenti in cui la distanza tra la vita e la morte è impercettibile.
Queste persone sono coloro che vengono chiamati invasori e terroristi, dietro la pressione di una propaganda politica ideologica che li strumentalizza per creare allarme e paure, spesso senza sapere niente di loro. Vanno guardati negli occhi, vanno ascoltati, visti camminare nelle nostre strade. Non sono tutti santi e angeli del cielo, la loro accoglienza non è senza difficoltà o anche incidenti. Però, sono persone. Questo conta più di tutto. Persone con storie di dolore e fatica sulle spalle. Sono in sei quelli che hanno parlato e camminato dietro la croce tra i canti e le preghiere alla luce ondeggiante delle candele.
Sei, di cui quattro musulmani. Tra questi ultimi, c’è chi è fuggito dai fondamentalisti perché vuole vivere in un Paese libero e laico e non sotto una tirannia integralista. Musulmani in cammino con noi cristiani, fra di noi: anche questa è la Quaresima; è la realtà che smentisce tanti luoghi comuni e pregiudizi. Una realtà che tanti non vogliono vedere e far vedere, ma esiste.
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