Un mio articolo pubblicato come Editoriale sul sito dei Viandanti
Ci ha insegnato e riconoscere i ciclopi, i barbari, e oggi abbiamo ancora bisogno della sua parola che scava in profondità, del suo sguardo visionario.
Il 31 gennaio 1915, a Prades (Francia), nacque Thomas Merton, approdato alla fede cattolica e alla vocazione monastica dopo una giovinezza cosmopolita, ricca di esperienze, ma anche travagliata.
Un esploratore del cuore dell’uomo
È stato una delle maggiori personalità spirituali del XX secolo e ha vissuto il passaggio da una fede estranea al mondo moderno a un cristianesimo che abita dentro la storia in comunione con l’umanità e i suoi fermenti, a partire dalla contemplazione e dall’esperienza eremitica. Merton era il solitario e marginale che guardava dentro il cuore dell’uomo e della società planetaria. Scrittore e poeta, con la sua vasta opera – la quale, di fatto, è una monumentale autobiografia spirituale – ha ispirato milioni di persone facendosi pioniere e viandante lungo le strade di regni sconosciuti: la pace, l’ecumenismo, l’incontro tra le religioni, ma soprattutto la ricerca di una spiritualità pienamente umana, al di là dell’irrigidimento di forme e devozioni religiose in cui la consuetudine rischia di prevalere sull’autenticità della relazione con Dio e con gli altri.
Nell’occasione di questo centenario, vale la pena di soffermarsi su uno degli aspetti più rilevanti, e a suo tempo controversi, della ricca elaborazione mertoniana, quella riguardante la pace e la nonviolenza. I recenti fatti di Parigi e l’emergenza del fondamentalismo la rendono particolarmente attuale. Non tanto in vista dello sterile esercizio consistente nel chiedersi: «Che cosa direbbe Thomas Merton, oggi?», quanto nella prospettiva di mettere in risalto i punti focali delle convinzioni da lui maturate che sta a noi mettere in correlazione con le vicende del nostro tempo.
Oggetto di ostracismo
Occupandosi di queste tematiche, Merton ha conosciuto ostracismi da parte di quei confratelli secondo i quali un monaco non avrebbe dovuto occuparsi di politica e da parte di quei cattolici che identificano la propria fede con l’appartenenza con il sistema politico-economico occidentale. «Una cosa è confidare in Dio perché si dipende da lui, un’altra è presumere che egli benedica le nostre bombe perché i russi sono atei e perché non è possibile che egli approvi il comunismo» (Diario di un testimone colpevole, p. 275).
Merton contestava l’alienazione in una sfera religiosa e sacra, distinta da quella profana, e i condizionamenti ideologici della cultura occidentale di cui la religione diventa proiezione e giustificazione. La preghiera, il silenzio, i sacramenti educano lo sguardo dei cristiani – rispetto ai quali il monaco si pone come “sentinella” e avanguardia – nel discernimento sulla storia e le sue urgenze. È un “esercizio di cristianesimo” che richiede tempi lunghi e non la fretta delle risposte di chi abbraccia un punto di vista e un interesse particolari, invece di essere aperto all’umano.
Un riferimento importante è il saggio «Gandhi e il ciclope», pubblicato nel 1964 come introduzione a una raccolta di aforismi del Mahatma, uno dei maestri di Merton. Le caratteristiche distintive della nonviolenza gandhiana sintetizzate in questo scritto rispecchiano la disposizione interiore del monaco-scrittore. Parlando di Gandhi, Merton raccontava le proprie convinzioni profonde.
Nella carità l’incontro Oriente e Occidente
I ciclopi sono gli uomini dell’Occidente che hanno la scienza senza saggezza, senz’anima, dominando la materia e gli altri esseri umani senza comprenderli. E, quindi, senza amarli. Da questo squilibrio nascono oppressione, ingiustizia, morte. Nell’incontro con il cristianesimo, Gandhi apprese la priorità della saggezza e dell’amore, dai quali ricavò la nonviolenza come realizzazione pratica del satyagraha, il restare aggrappati alla verità. «Gandhi così non abbracciò la religione cristiana, ma non la rifiutò; prese dal pensiero cristiano tutto quello che sembrava lo riguardasse in quanto indù».
Ci sono dei valori essenziali – etici, religiosi, ascetici, spirituali e filosofici – che sono universali e condivisi tra Oriente e Occidente e che, dal punto di vista cristiano, trovano il loro compimento nella carità. «Una carità che escluda quei valori non può aspirare al titolo di amore cristiano».
È in nome di quella carità, di cui si trovano le tracce in tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, che Merton ha cercato l’incontro con i loro esponenti. È in nome di quella stessa carità che impegnava la sua parola per diritti civili, per la pace in Vietnam, per il disarmo atomico anche contro la cultura e agli umori predominanti. Mettere in discussione l’arsenale nucleare voleva dire allora contestare la politica di supremazia mondiale degli USA e la logica della guerra fredda e dell’economia capitalista.
La spiritualità è politica
Per lui, però, la priorità spettava a un principio spirituale come già Gandhi aveva intuito, l’unità interiore che ricompone le divisioni da cui deriva la vera libertà e l’impegno politico. «A differenza di quanto si è creduto in Occidente nei secoli recenti, la vita spirituale e interiore non è una faccenda esclusivamente privata. (…) La vita spirituale di un individuo è semplicemente il manifestarsi nel singolo della vita di tutti».
La spiritualità è politica, perché tende alla verità e al bene dell’umano, trascendendo il particolarismo dell’utile e delle ideologie. Ecco, allora, che per Gandhi (e Merton con lui) la sfera pubblica non è secolare, ma sacra e il primo modo di realizzare la verità dell’uomo e l’unità umana nella sua radice spirituale è eliminare la violenza che le contraddice. La nonviolenza, in questo senso, appartiene alla natura stessa della vita politica, mentre la violenza è il segno di una politica disumanizzata.
Da questi presupposti nasce una sottile critica della società moderna, retta sull’uso della forza, in maniera palese nelle tirannie e meno evidente nelle democrazie, a partire dalla convinzione della necessità della violenza e dell’irreversibilità del male.
L’intreccio dinamico delle relazioni umane
«Il “tessuto” della società non è mai finito. È sempre “in fieri”, sul telaio, ed è un intreccio di rapporti in costante mutazione. La nonviolenza tiene conto precisamente di questa natura dinamica e non definitiva dei rapporti umani, perché cerca di trasformare i cattivi rapporti in buoni rapporti, o almeno in rapporti meno cattivi. Perciò la nonviolenza implica un tipo di coraggio diversissimo dal coraggio della violenza. Nell’usare la forza, tendiamo a semplificare la situazione immaginando che il male da vincere sia ben delineato, definito e irreversibile. Quindi non resta da fare altro che eliminarlo».
Anche la democrazia può seguire una logica violenza, identificando i propri mali con una porzione di umanità e combattendola, innescando così una spirale in cui l’aggressione genera altra aggressione, invece di trovare una soluzione comune. Ma quest’ultimo passo richiede consapevolezza, conversione, ritorno alla nostra verità umana e spirituale. Occorre ritrovare se stessi ed essere capaci di comprensione e perdono verso l’altro.
Una lettura profetica
I ciclopi hanno perso questa capacità, vedono solo con l’occhio che concepisce tutto nei termini di un controllo da esercitare e hanno portato nel mondo questo sguardo: «tutto ciò è diventato assai evidente nella triste situazione delle nuove nazioni dell’Asia e dell’Africa, improvvisamente libere dalla tutela coloniale! Avendo accettato la “cultura” dell’uomo bianco nella loro condizione di vassalli, e avendo conservato questo vassallaggio intellettuale e spirituale anche dopo la liberazione, le nuove nazioni sono entrate in una spirale di frustrazione, incoerenza, risentimento e violenza, perché hanno ereditato la colpa delle potenze coloniali sotto forma di odio di sé, di incapacità a capire se stessi e di paura e diffidenza illimitate verso tutti gli altri. Questa non è la libertà e nemmeno la civiltà. È la barbarie dell’uomo post-storico! Una barbarie che può essere evitata solo ricorrendo ai principi e alle politiche di uomini come Gandhi o Giovanni XXIII».
Qui, Merton ha in mente la Pacem in terris, alla quale ha dato un contributo, per come mette in chiaro che la pace non può essere costruita sull’esclusivismo, l’assolutismo e l’intolleranza. La lettura di Merton è addirittura profetica, per come ha saputo cogliere già mezzo secolo fa il germe dell’odierna minaccia del terrorismo fondamentalista, ma anche la debolezza della visione dello scontro di civiltà. Seguire questa strada porterebbe solo a perpetuare e diffondere ciò che si crede di combattere, come ha fatto l’interventismo bellico del primo decennio di questo secolo e di cui ora scontiamo le conseguenze.
Uomini come Thomas Merton sono fuori dagli schemi in cui ci incagliamo, sono i rari uomini che hanno trovato e riaperto l’occhio che i ciclopi hanno perso.
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