Dal mio e-book "La conversione del cristiano e della chiesa"
Chiesa in uscita, chiesa in missione: sono espressioni ricorrenti nel linguaggio di papa Francesco, ma non si può fare a meno di chiedersi che cosa significhino nel concreto.
Riprendo ancora l’analisi di Severino Dianich:
«La chiesa locale evangelizza grazie a una forma istituzionale e organizzativa di tipo plurale, perché deve tenere conto delle diversità non solo dei destinatari, ma anche degli annunciatori. È una pluralità sinfonica. Apostolicam actuositatem 2 afferma che la diversità di ministero implica l’unità di missione. Più che in passato, oggi le chiese locali hanno bisogno di riconcentrarsi sulla missione, anche attraverso un ripensamento dei loro rapporti con la società, adottando un profilo più basso. Infatti, riattiva le dinamiche dell’evangelizzazione non richiede l’invenzione di nuove strategie pubbliche, ma di potenziare le vie dell’incontro interpersonale. La nuova forma pubblica della chiesa dovrà essere più aperta: offrire a tutti spazio di accoglienza e dialogo, dove il racconto dei sentimenti e degli affetti prevalgono sulla razionalità asettica della dottrina. Il teologo Congar, uno dei padri dell’ecclesiologia conciliare, parlava di “Chiesa della soglia”, i cui confini sono più indeterminati, abitata anche da persone con una fede incerta, dubbiosa, poco ortodossa. Ma anche una chiesa capace di costruire ponti tra l’oggettività della sua dottrina teologica, morale e liturgica e la soggettività variegata di coloro che bussano alla sua porta in cerca di Dio e della parola evangelica. Tutto ciò è molto nuovo per noi, e profondamente antico per la fede cristiana».
È il profilo di una chiesa non auto-referenziale, la quale non si rivolge solo a coloro che spontaneamente entrano nei suoi recinti, ma sa convivere e interagire con l’alterità, con quella parte di mondo che si sente poco legato e interessato ad essa. Questa è forse la sfida più grande, quella su cui siamo più indietro, il che spiega l’insistenza di papa Francesco su una “cultura dell’incontro”.
Si tratta di saper stare nella compagnia degli uomini, abitare la storia di tutti e la comune umanità mantenendo la differenza cristiana non nell’assimilazione al proprio tempo, non nella contrapposizione che fuori di sé vede solo una desolazione da conquistare e redimere, ma nella relazione che sa vedere gli uomini e le donne di oggi con simpatia (pur nella criticità verso modi di pensare utilitaristi e individualisti), testimoniando il Vangelo come parola buona per la vita di tutti. È solo se sappiamo viverla come tale dentro i vissuti esistenziali che ci accomunano che sapremo farne sprigionare il carattere attraente e persuasivo.
In questa impresa, il modello e la guida non può che essere lo stile di Gesù nella sua capacità d’incontro con persone di ogni segno che riassumerei in quattro caratteri fondamentali: la prossimità, la gratuità, l’accompagnare e la simpatia per l’alterità.
Il cristiano (e con lui la comunità) che è credibile nell’evangelizzare, perché si è prima di tutto lasciato evangelizzare entrando nella dinamica della conversione, è colui che ha assimilato lo stile di Gesù, l’unità profonda della sua persona e della sua esistenza. Papa Francesco sembra aver recepito la riflessione di Christoph Theobald che presenta il cristianesimo come stile: fare proprio il modo di abitare il mondo di Gesù di Nazareth è un accesso alla verità di Dio e dell’uomo, è la forma originaria e universale di un modo di relazionarsi alla realtà in cui l’esistenza nella sua interezza trova senso.
«Tutta la vita di Gesù, il suo modo di trattare i poveri, i suoi gesti, la sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e infine la sua dedizione totale, tutto è prezioso e parla alla nostra vita personale» (EG 265).
Era l’arte educativa di Gesù: mettersi a questa scuola significa cercare quel che lui cerca, amare quel che lui ama e corrisponde alle nostre più originarie e profonde necessità umane, nella semplicità, nella totale unità tra persona e azione (cfr. EG 265-267). Tutta la sua vita è stata un “uscire da sé” verso gli altri, a cominciare dal guardarli con attenzione e amore. «Il donarsi di Gesù sulla croce non è altro che il culmine di questo stile che ha contrassegnato tutta la sua esistenza» (EG 269).
È seguendo il cammino del Signore che i cristiani si riconoscono come popolo e sono fedeli alla terra, solidali con tutti gli uomini di cui condividono gioie e speranze, tristezze e angosce, nell’impegno comune per la costruzione di un mondo migliore (cfr. Gaudium et spes, 1).
La santità di Gesù non si configurava come distanza abissale e inarrivabile del divino dall’umano, ma come santità ospitale come spazio di vita e di libertà che concedeva ad ogni interlocutore di scoprire la sua identità più propria a partire da un atto di fede in ciò che già lo abita in profondità e che è in ultima analisi presenza dello Spirito. È significativo che nel guarire i malati dicesse: «La tua fede ti ha salvato». Gesù incontrava gli altri com’erano e dov’erano, in compagnia con loro, non per esercitare un potere, ma per far emergere la consapevolezza di essere figli amati del padre, la cui vita ha dignità e valore.
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