Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato una prova della non esistenza di Dio. Ho sviluppato questa convinzione soprattutto all’Istituto nazionale tumori di Milano, dove ogni tanto frequentavo il reparto di pediatria. Come puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del «non so». Perché accade – e per i bambini oggi succede sempre più spesso – che il dubbio diventi concreta speranza e poi guarigione, e quando questo avviene, è pura gioia.
Sono parole dell'oncologo Umberto Veronesi, tratte dal suo ultimo libro, Il mestiere di uomo (Einaudi), e riportate di recente su Repubblica.
Non posso ignorarle, perché da dieci anni frequento come paziente proprio l'Istituto dei tumori di Milano, dove ho trovato cura e persino amicizia. E la scorsa settimana ho parlato di questi temi in un incontro con don Tullio Proserpio, cappellano dell'istituto, al Centro di spiritualità di Crema.
Ho avuto modo di meditare sulle malattie che mi hanno colpito, di vedere persone che muoiono e altre che guariscono (e per fortuna queste ultime aumentano) e di cogliere frammenti del mondo durissimo dell'oncologia pediatrica.
Si può dire che la morte di un bambino è la volontà di Dio? E se non lo è, perché accade?
A proposito della prima domanda, sono convinto assolutamente di no. A chi pensa che si debba accettare la sofferenza come mandata da Dio per un suo supposto valore salvifico, rispondo con le parole udite direttamente da Enzo Bianchi: se qualcuno ci tiene tanto alla sofferenza, la tenga lui. Un dio così sarebbe di una crudeltà assoluta e andrebbe rifiutato e bestemmiato. Gesù non ha mai mostrato un Padre del genere.
Però, la domanda resta. Il dolore resta. Don Tullio ha detto: sono gli stessi interrogativi che mi pongo anche io. E bisogna dirlo chiaramente. Su questi temi non si tratta di cercare di vincere un dibattito. Non sento alcun bisogno di disputare con Veronesi o cercare di dimostrare che lui ha torto e io ragione, nel mio credere di credere.
Queste cose non sono un terreno di competizione di idee, è l'aspetto duro della condizione umana che ci accomuna tutti. E i tentativi di risposta sono solo parole, in ultima analisi. Il male resta scandalo e mistero e chi cerca di spiegarlo fa accademia, non ne prova il tocco bruciante e non rispetta coloro che soffrono. La scienza ci spiega con una certa precisione come nascono i tumori, ma conoscere questi meccanismi biologici non ci basta, come non ci bastano le risposte di una religiosità consolatoria.
Veronesi racconta la sua esperienza vitale e in quanto tale la devo rispettare. Tutto quello che mi sento di dire è che, nonostante questi eventi orribili, c'è la possibilità della vita e della guarigione. C'è l'amore che dura, anche quando una persona muore. C'è chi in quell'amore avverte una speranza e un desiderio che la morte non sia l'ultima parola, che le nostre esistenze non vadano perdute. E c'è chi guardando a Gesù di Nazaret trova una scintilla di fiducia in questo amore.
No, la fede non è una risposta a buon mercato. E' la possibilità di una scintilla di fiducia, di un'esperienza vitale di segno diverso da quella di Veronesi. Senza bisogno di contrapposizioni, perché nel rifiutare la morte e nel volere la vita e l'amore siamo tutti uniti, fratelli in umanità.
La mia convinzione è esattamente l’opposto, modificando leggermente i termini del filo logico: la nostra percezione del “male” è la prova che esiste una realtà che trascende l’universo fisico. Il ragionamento è questo: possiamo dividere il male in due classi che in parte si sovrappongono: 1) male “naturale”, che possiamo a sua volta classificare in 1A) male causato da catastrofi fisiche (terremoti ecc.) e 1B) da cause biologiche (malformazioni, malattie, ecc.), e poi 2) male causato da azioni umane.
La prima classe di mali, per chi ci vede come espressione del determinismo fisico o (se va bene) del caso, è un elemento evolutivo assolutamente necessario, senza il quale è scientificamente certo che non saremmo qui a porci queste domande. L’evoluzione dell’universo, del sistema solare, della terra, con tutti gli ingredienti catastrofici passati, presenti e futuri, è un prerequisito all’evoluzione della vita.
La vita a sua volta, per evolvere dai primi proto-organismi fino a noi, ha necessitato di logiche di competizione e cooperazione, i cui aspetti inscindibili dalla continua evoluzione verso l’homo sapiens sapiens sono state malformazioni e malattie; grazie alla scienza abbiamo la possibilità di renderle sempre meno dolorose e letali.
Il male generato dall’uomo, per chi ci vede come semplice espressione fisica di questa evoluzione, deve essere catalogato anch’esso nella prima categoria, dato che per definizione, senza trascendenza tutto ciò che è NELL’universo è DELL’universo. Se non esiste Dio, non può esistere libertà in nessun luogo, tutto è Caso o Necessità. Infatti gli atei scientificamente e filosoficamente più attenti non dibattono più sull’esistenza di Dio, ma del libero arbitrio, e quasi unanimemente decidono che non esiste la libertà (non ci sono i “volitoni” nello zoo delle particelle) e i più coerenti verificano anche che non esiste la coscienza, in sostanza non esiste l’Io. Per chi invece crede nella libertà, e quindi nella responsabilità, dell’uomo (che è appunto l’unico animale sicuramente capace di malvagità), l’unica spiegazione razionale al fatto che percepiamo il male è proprio perché noi siamo NEL mondo ma non siamo DEL mondo: in noi c’è una scintilla di trascendenza che proviene da Dio.
Scritto da: Pierluigi | 19/11/14 a 18:16