MASSIMO DE GIUSEPPE, sito c3dem, 14 maggio 2014
L’autore è ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano
Il 25 febbraio scorso, commentando l’intervento alla Camera del neopremier Matteo Renzi, l’editorialista de «Il Giornale», Ivan Francese, scriveva: «non si ferma più: dopo il Senato, anche ai deputati viene riproposto un fiume di citazioni e gag ad effetto e nello specifico il banchetto prosegue con omaggi al sindaco di Firenze degli anni ’50 Giorgio La Pira, terziario domenicano e Servo di Dio per la Chiesa cattolica …. Su Twitter intanto spopola l’hashtag #secondomatteo, che forse più che al bicameralismo fa riferimento al Vangelo».
Al di là della facile ironia del giornalista del quotidiano berlusconiano, da una rapida lettura dei commenti ai due interventi alle Camere del segretario del Pd, all’indomani del suo insediamento alla guida dell’esecutivo, emerge un senso di generale disorientamento; lo stesso che ha serpeggiato dentro allo stesso Pd, ancora segnato dall’accelerazione forzata della crisi del governo Letta e dalle ferite non rimarginate della mancata elezione presidenziale. Un approccio interpretato da molti come eccessivamente «light», specie in relazione ad alcuni nodi tradizionalmente «heavy» (il tema delle riforme costituzionali in primis). Eppure, liberandoci per un attimo dell’ingombrante autostima del giovane premier «rottamatore», i contenuti, c’erano, nemmeno troppo nascosti, scuola e fisco innanzi a tutti, e credo che sarebbe ingiusto (e ingenuo) derubricare il tutto a semplice sloganistica elettorale.
Facciamo allora un passo indietro. Nel confronto televisivo tenutosi alla vigilia delle primarie del Pd del dicembre 2013, Renzi ha richiamato espressamente tre nomi cruciali del suo pantheon ideale: Giorgio La Pira, don Primo Mazzolari e Nicola Pistelli. Tre figure tutt’altro che scontate per il «grande pubblico», a differenza di altri simboli o brand di più facile vendibilità mediatica (Mandela, JFK, gli U2, i manga giapponesi). Se pensiamo alla marginalizzazione politica della componente cattolico-democratica all’interno del Pd (ma anche nelle varie formule di coalizione di centro-sinistra espresse negli ultimi anni), la mossa renziana appare controcorrente. Come a dire, se davvero vuole essere sempre mainstream e giovanilistico, per attrarre voti e consensi, perché evocare gli autori de Il compagno Cristo e di Le città sono vive?
Tanto il nome di Nicola Pistelli, lapiriano doc, enfant prodige della sinistra democristiana nella fase genetica del centro-sinistra, quanto quello del parroco di Bozzolo, non sono certo richiami alla moda ma risultano cruciali per comprendere genesi ed evoluzioni mancate nella storia della Dc. Proprio questo tratto dicotomico (di democristiano anomalo e propositivo) si ritrova ancor più chiaramente nel terzo modello citato: Giorgio La Pira. Una figura a suo modo transpolitica, transecclesiale e con le radici saldamente piantate in un umanesimo cristiano aperto al diverso. Una presenza spesso schematizzata ma che, a dispetto di qualche abortito tentativo di appropriazione politica da parte del centro-destra (forzando i termini del suo integralismo cristiano), resta geneticamente collocata nella memoria storica, istituzionale, culturale, politica di un cattolicesimo sociale, naturalmente aperto a sinistra.
Cosa può accomunare allora il «sindaco santo» al giovane premier rampante? L’uomo che si scontrò coraggiosamente con le dinamiche della guerra fredda, diventando un originale costruttore di forme di diplomazia alternativa, a un premier giovane e disinvolto che non si fa problemi a trattare con gli avversari per ottenere risultati immediati? Cosa avvicina il cristiano che commentava in termini evangelici le grandi questioni internazionali, ad un giovane «rottamatore» che, nella sua corsa verso Palazzo Chigi, ha fatto continuo e spregiudicato sfoggio di un linguaggio pubblicitario? Cosa infine avvicina un politico capace di unire dottrina sociale della chiesa e tesi keynesiane, ad un leader emergente che vanta nel suo curriculum prepolitico, anche una fortunata partecipazione a un quiz sulle reti Mediaset?
Vanessa Roghi su «Minima et Moralia» ha provato a riflettere sul perché Renzi abbia scelto proprio La Pira, cui ha anche dedicato la propria tesi di laurea, come «padre spirituale e politico» e, dopo aver elencato alcune caratteristiche lapiriane – il pacifismo radicale, l’impegno sociale, l’ubbidienza originale alla chiesa e l’indipendenza dal partito –, concludeva «Nessuna di queste caratteristiche di radicale alterità rispetto ai suoi la ritrovo in Matteo Renzi. Ma forse mi sbaglio, perché di Renzi non so molto». In realtà un’alterità del nuovo premier esiste, è percepita ed è probabilmente la sua arma segreta.
In tutto ciò non va dimenticato un elemento non secondario. Il La Pira della Pignone e della Attesa della povera gente non avrebbe mai potuto essere presidente del Consiglio nell’Italia degli anni ’50 e nemmeno nella stagione del centro-sinistra. C’erano le paratie della guerra fredda e non solo. Il suo ruolo era quello di stimolo, costante, continuo e creativo, rispetto ai suoi interlocutori privilegiati (Fanfani, Mattei, Giovanni XXIII e Paolo VI). Certo i rapporti di Renzi con il mondo della cultura, della finanza e dell’imprenditoria new style, sembrano ben altra cosa rispetto al legame La Pira-Mattei o La Pira-Quasimodo ma l’alterità, se ben incanalata e ben maturata, può aiutare ad accompagnare il rinnovamento.
Certo l’attenzione lapiriana alla giustizia sociale ripetutamente citata nei dibattiti televisivi è tutta da verificare. Le incognite sono molteplici: il Job’s Act è una forma innovativa di lotta alla disoccupazione o una maschera per favorire una istituzionalizzazione del precariato? La riforma del Senato, la fine del bicameralismo perfetto e gli interventi sulla seconda parte della Costituzione, rappresentano un oltraggio alle istituzioni o una forma di reale modernizzazione? E il discorso si può allargare naturalmente a una lunga serie di ambiti sensibili.
Piuttosto, dietro alle attese crescenti non può esserci un aut aut personalistico ma serve una capacità di catalizzare in termini propositivi la voglia di cambiamento presente nel paese, contrastando nel profondo le derive populistiche, divisorie e distruttive emerse negli ultimi mesi. Se davvero vuole confrontarsi con La Pira, il premier non deve allora limitarsi trovare vie di dialogo intergenerazionali, mescolando alto e basso, accorciando i tempi e le attese e rischiando, inevitabilmente, di indulgere in forme di populismo leggero. Deve piuttosto ricordarsi un leit-motiv lapiriano: «il criterio della tradizione è il futuro». La scuola, l’Europa, la valorizzazione del patrimonio culturale devono diventare orizzonti credibili, mentre spirito delle leggi ed esigenze sociali, istituzioni e cittadinanza devono tornare a dialogare in modo creativo. La via è in fondo una sola: ricollocare al centro del tutto il bene comune. In tal senso pensare in grande potrebbe anche essere un esercizio salutare.
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