Avvenire, 24 gennaio 2014
ENZO BIANCHI
La Giornata della memoria è un momento privilegiato di etica condivisa, un’occasione che l’umanità si è data per esercitarsi nel discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male, per riconoscere che anche belle buie stagioni di barbarie la responsabilità delle proprie azioni – e dei pensieri che le muovono – è personale. Una giornata, allora, in cui fa bene a tutti ricordare: a chi vorrebbe dimenticare perché il dolore subito è troppo grande e a chi vorrebbe farsi dimenticare perché di quel dolore è stato complice. E ricordare fa bene anche e soprattutto a chi l’inferno della shoah non l’ha vissuto, né direttamente né attraverso persone care.
Ma cosa significa in particolare questa Giornata di etica universale per ebrei e cristiani – per i credenti nel Dio biblico – e per le loro relazioni? Ebraismo e cristianesimo non solo hanno dimestichezza con la memoria, ma trovano in questa categoria del “memoriale”, del ricordo attualizzante, il cuore delle celebrazioni della loro fede. Fare memoria dell’esodo dall’Egitto, della liberazione dalla condizione di schiavitù è l’essenza stessa della festa della Pasqua ebraica. Il Dio di Israele è il Dio che ha liberato e libera il suo popolo da ogni condizione di estraneità: ogni comandamento donato dal Signore al Sinai prende le mosse da quel “Ricordati che eri straniero nel paese d’Egitto!”. Se questa memoria accompagnerà ogni tuo istante di vita, non potrai che comportarti come il tuo Dio misericordioso e compassionevole ti chiede di comportarti.
Ma anche per i cristiani la Pasqua è memoriale di un esodo decisivo nella storia della salvezza: il passaggio di Gesù di Nazareth dalla morte alla vita, il dono fatto dal Messia, Figlio di Dio, del suo corpo e del suo sangue, da celebrare osservando la sua parola: “Fate questo in memoria di me”. Per questo parlare di “memoria” per ebrei e cristiani significa andare al cuore della loro fede e non solo rievocare eventi tragici perché non si ripetano più o gesti di profonda umanità perché servano da esempio.
In questo senso la Giornata della memoria è anche l’occasione perché ebrei e cristiani si chiedano “quanta est nobis via?”, quanto cammino ancora ci resta da compiere sulla strada del dialogo, della conoscenza reciproca, dell’obbedienza all’unico Signore? E, come sappiamo, questo cammino è fatto sì di incontri ufficiali, di dichiarazioni comuni, di studi e approfondimenti storici e scientifici, di aperture di archivi, di riletture di eventi, ma è fatto anche di persone concrete, di ascolto cordiale, di incontri cuore a cuore più ancora che faccia a faccia. In questo senso abbiamo visto come l’elezione a vescovo di Roma di un cardinale proveniente dal paese dell’America Latina con la comunità ebraica più consistente – e nello stesso tempo in cui ha trovato rifugio un gran numero di artefici della Shoah – e legato da cordiale amicizia con il rettore del seminario rabbinico di Buenos Aires abbia conferito agli scambi formali una connotazione di umana simpatia e solidarietà.
Ora, “fare memoria insieme” significa anche ammettere che purtroppo per oltre diciannove secoli l’atteggiamento dei cristiani verso gli ebrei è stato modellato dall’emulazione, dalla condanna, dal disprezzo, dalla persecuzione, è stato cioè un antigiudaismo perdurante, mai contraddetto in modo decisivo da parte delle istituzioni, dei magisteri, delle voci autorevoli delle diverse chiese. Un atteggiamento, questo dell’antigiudaismo cristiano, che, pur distinto dall’antisemitismo, lo ha accompagnato producendo una ricaduta con effetti di potenziamento; antigiudaismo cristiano teologico e pratico che di fatto ha favorito il silenzio, l’indifferenza e la passività della quasi totalità dei cristiani e delle chiese nell’ora del male assoluto, l’ora della shoah.
Ma è innegabile che papa Giovanni XXIII, il Vaticano II e il suo decreto Nostra aetate abbiano rappresentato in questo senso una svolta epocale. Dopo quella stagione primaverile, che molti ritrovano nell’ora attuale, è possibile per le due religioni essere una accanto all’altra nella forma non della loro reciproca negazione ma del riconoscimento, ammettendo che nessuna forma religiosa può esprimere pienamente la verità, né la sua unità integrale. Questo richiede però di perseverare in un lungo cammino che non si accontenta di liquidare l’antigiudaismo come “errore teologico” e di condannarne la prassi nella storia, ma che diventa anche esame critico delle sue motivazioni e ispirazioni. Cammino lungo, faticoso, che comporta un lavoro su di sé, ma cammino assolutamente necessario se non vogliamo arrestarci alla cura dei sintomi senza sanare le cause. Da almeno una dozzina d’anni, poi, è iniziata anche la ricezione della svolta da parte degli ebrei, come testimoniato sia da documenti e dichiarazioni sia da un mutato atteggiamento nel vissuto quotidiano di tante comunità. Anche questo dato non fa che accrescere la speranza di un nuovo rapporto che sia confronto e cordiale dialettica tra le due religioni.
Del resto, la Giornata della memoria non ricorda solo il male assoluto e le sue vittime, ma anche la “banalità del bene” di coloro – e sono stati tanti, anche tra i cristiani – che a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati, i “Giusti fra le Nazioni”. È doveroso allora ricordare come alcuni giorni fa papa Francesco abbia ricevuto per un lungo colloquio personale uno di loro, fr. Arturo Paoli, ultracentenario prete da sempre vicino ai poveri e alle vittime della storia: un testimone del Vangelo che ha molto sofferto a causa della giustizia, anche a opera di fratelli nella fede che lo hanno emarginato. Presenze e incontri come questo sono allora un richiamo alla responsabilità personale di ciascuno: nessuno potrà più invocare a propria scusante l’ignoranza su quanto accaduto nella storia. Ciascuno di noi è e sarà responsabile in prima persona di una conferma o di una contraddizione alla svolta nel dialogo tra ebrei e cristiani. Anche questo ci ricorda la Giornata della memoria.
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