Il capitolo finale dell’Evangelii Gaudium (nn. 259-288) a una lettura superficiale può apparire addirittura superfluo. In un documento del magistero che aspira a dare l’avvio a una conversione pastorale in senso missionario e a un rinnovamento di tutta la chiesa cattolica, potrebbe fare la figura di un allungamento del brodo. Non ci sono infatti orientamenti, proposte, prospettive che guardano alla concretezza. Eppure, è un capitolo indispensabile e determinante.
Pochi anni fa, Enzo Bianchi lanciava un allarme sullo scollamento tra realtà ecclesiale e vita spirituale: «Oggi, l’ambito ecclesiale non è più sentito come scuola che introduce all’arte della “vita in Cristo”: la chiesa è divenuta sempre più ministra di parole etiche, sociali, politiche, economiche, e sembra aver smarrito l’uso del suo messaggio proprio… È invalsa l’idea che la vita cristiana corrisponda a un impegno sociale, a uno stile di vita genericamente altruista, tanto che la “vita ecclesiale” è ormai sinonimo di attività organizzativa e pastorale, non di luogo capace di iniziare alla vita umana e spirituale». In questo modo la trasmissione della fede diviene un atto catechetico, nel senso deteriore di insegnamento dottrinale, più che iniziazione a un’esperienza autentica di conoscenza del Signore nella fede.
La spiritualità degenera perciò in una sua declinazione intimistica e individualistica che è in realtà spiritualismo. Il rinnovamento della chiesa viene così reso evanescente. C’è chi dice che le strutture non sono decisive, perché la vera riforma è interiore. Però, questa diventa una scusa per non cambiare mai nulla. Francesco è deciso nel respingere lo spiritualismo intimista (cfr. EG 262): questa religiosità disincarnata è all’opposto della fede cristiana in cui Gesù è narrazione del Dio che abita l’umano. Ci deve essere invece corrispondenza tra vissuto spirituale e vissuto ecclesiale. È una vita trasfigurata dalla presenza di Dio, dall’azione del suo Spirito, a evangelizzare, non le parole (cfr. EG 259).
Impegno e preghiera stanno insieme; azione e contemplazione sono i due poli tra cui si situa l’esistenza cristiana. «Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività» (EG 260).
Nel capitolo sono presentate alcune motivazioni e suggerimenti spirituali. Nonostante sia il più breve del documento, è quello che contiene il maggior numero di riferimenti biblici (circa un quarto del totale). Non è il papa in quanto autorità che parla; bensì il credente in ascolto della Parola di Dio, il peccatore a cui il Signore ha guardato, come lui si definisce nel dialogo con Antonio Spadaro. I tentativi di collocare Bergoglio nello schema “conservatori-progressisti”, per “arruolarlo” dalla propria parte, risentono di una visione di chiesa intesa come luogo di lotta e di potere. È in fondo lo stesso errore degli apostoli che, durante l’ultima cena, discutevano su chi di loro fosse il più grande (cfr. Lc 22,24-27). Ogni autentica fedeltà alla tradizione e ogni autentica riforma della chiesa non sono altro che docilità al Vangelo. È da lì che nascono i più importanti gesti e parole di questo papa. C’è una “trama evangelica” nella quale sono intessuti.
Il punto di partenza è il credere all’amore (cfr. 1 Gv 4,16), che non è un generico senso di fascino e timore sacro per Dio. Dio nessuno l’ha mai visto (cfr. Gv 1,18; 1 Gv 4,12); è l’uomo Gesù che ci ha raccontato il suo amore: l’evangelizzatore è un contemplativo del Vangelo, lì ha trovato una fiducia fondamentale che lo umanizza, la orienta a una vita rinnovata (cfr. EG 264).
Il cristiano che evangelizza, perché prima si è lasciato evangelizzare, è colui che ha assimilato lo stile di Gesù, l’unità profonda della sua persona e della sua esistenza. Papa Francesco sembra aver recepito la riflessione teologica di Christoph Theobald in cui questa intuizione è sviluppata e che presenta il cristianesimo come stile.
«Tutta la vita di Gesù, il suo modo di trattare i poveri, i suoi gesti, la sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e infine la sua dedizione totale, tutto è prezioso e parla alla nostra vita personale» (EG 265).
Era l’arte educativa di Gesù: mettersi a questa scuola significa cercare quel che lui cerca, amare quel che lui ama e corrisponde alle nostre più originarie e profonde necessità umane (cfr. EG 265-267). Tutta la sua vita è stata un “uscire da sé” verso gli altri, a cominciare dal guardarli con attenzione e amore. «Il donarsi di Gesù sulla croce non è altro che il culmine di questo stile che ha contrassegnato tutta la sua esistenza» (EG 269). È ponendosi alla sequela del Signore che i cristiani si riconoscono come popolo e sono fedeli alla terra, solidali con tutti gli uomini di cui condividono gioie e speranze, tristezze e angosce, nell’impegno comune per la costruzione di un mondo migliore (cfr. Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1).
Nel rapporto con il mondo, perciò, i cristiani non guardano l’altro dall’alto in basso; sono invitati a rendere ragione della propria speranza con dolcezza e rispetto, vivendo in pace con tutti (cfr. 1 Pt 3,16; Rm 12,18), non come nemici che puntano il dito e condannano. «Questa non è l’opinione di un papa, né un’opzione pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni» (EG 271).
Per Francesco tutto nella chiesa, anche il ministero del papa, richiede innanzitutto fedeltà al Vangelo. È detto per chi sacralizza l’istituzione e la gerarchia facendoli diventare fine piuttosto che strumento. E anche per chi vede l’essere cristiani come contrapposizione al mondo e alla storia che sono invece benedetti da Dio, mentre la Scritture respinge in realtà la mondanità, la mentalità anti-evangelica che Gesù condannava con parole dure rivolte proprio agli uomini religiosi.
La mentalità religiosa del sacro tende alla separazione, la logica del Vangelo, invece, all’incontro. «Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri. Questa apertura del cuore è fonte di felicità, perché “si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Non si vive meglio fuggendo dagli altri, nascondendosi, negandosi alla condivisione, se si resiste a dare, se ci si rinchiude nella comodità. Ciò non è altro che un lento suicidio» (EG 272). Ognuno è degno di attenzione, indipendentemente dal suo aspetto, dalle sue capacità, dalle sue convinzioni (cfr. EG 274).
È un atteggiamento libero, gratuito, senza calcoli e senza pretese, che non guarda anzitutto al risultato, anche a costo i patire il fallimento e l’incomprensione perché si fonda sulla fede nel Signore che è risorto, passando però per la morte (cfr. EG 275).
La fiducia del cristiano è paziente, tenace, non conta su un potere della chiesa, ma sulla forza umile e nascosta del Regno di Dio che è come il seme che cresce senza che dipenda dal contadino, come il lievito che fa fermentare la pasta, come il grano che cresce in mezzo alla zizzania. I segni ci sono, ma sono visibili solo allo sguardo contemplativo della fede, educato dalla preghiera (cfr. EG 278-279).
Gli altri sono portati dentro lo spazio della preghiera: lo sguardo contemplativo non li vede come avversari o come terra di conquista, ma li porta nel cuore (cfr. Fil 1,7), intercede per loro, rende grazie per loro (cfr. EG 281-282). La mentalità mondana cerca di possedere l’altro e di dominarlo, altrimenti lo vuole eliminare; la mentalità evangelica vede l’altro come un dono per cui ringraziare.
L’icona biblica di queste disposizioni spirituali è Maria, che è madre della fede, a cui è dedicato il finale dell’esortazione (nn. 284-288). Un’icona femminile in una chiesa in cui ha prevalso l’impronta maschile e che dovrebbe invece acquisire uno stile mariano. Quel che più conta per Maria non sono privilegi, prodigi, opposizioni, presunte rivelazioni, bensì l’atteggiamento spirituale che ha contraddistinto la sua vicenda, tutta intrecciata con quella del suo figlio e Signore.
«Ella è la donna di fede che cammina nella fede. (..) Ella si è lasciata condurre dallo Spirito, attraverso un itinerario di fede, verso un destino di servizio e fecondità. (…) In questo pellegrinaggio di evangelizzazione non mancano le fasi di aridità, di nascondimento e persino di una certa fatica, come quello che visse Maria negli anni di Nazaret, mentre Gesù cresceva» (EG 287).
Maria donna della terra, dunque, di una fiducia vissuta nelle contraddizioni della sua storia, prima che donna del cielo. A lei Francesco si rivolge, al termine del documento, presentando la svolta che attende la chiesa.
Dacci la santa audacia di cercare nuove strade
perché giunga a tutti
il dono della bellezza che non si spegne (EG 288).
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