La terza parte dell’Evangelii Gaudium prende in esame le costanti dell’evangelizzazione, gli elementi irrinunciabili al di là dei contesti storici e geografici (nn. 110-175). È la sezione in cui mi sembra maggiormente presente il materiale elaborato durante il sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione del 2012. La mano di papa Francesco è meno evidente, mentre si cogli una certa disomogeneità, forse dovuta alla varietà dei contributi di cui si è cercato di fare sintesi
Al di là delle valutazioni personali, il tratto unificante e la chiave interpretativa del capitolo è il primato della proclamazione di Gesù Cristo in ogni attività di evangelizzazione (cfr. EG 110). Qui papa Bergoglio cita Giovanni Paolo II, dall’esortazione Ecclesia in Asia del 1999. Una delle caratteristiche del documento, infatti, è di citare ampiamente testi papali rivolti alle chiese dei cinque continenti insieme ai pronunciamenti di alcune conferenze episcopali. È un dettaglio in cui si coglie l’assunzione di uno sguardo ampio, abbracciando l’universalità della chiesa cattolica, senza rimanere circoscritto al punto di vista occidentale che dal Medio Evo fino al XX secolo ha pressoché monopolizzato il cattolicesimo nel bene e nel male. Secondo il gesuita Karl Rahner, il Concilio Vaticano II ha contrassegnato la transizione da una chiesa eurocentrica a una chiesa mondiale, un vero e proprio passaggio d’epoca paragonabile alle grandi svolte storiche e che ha incontrato forti resistenze.
Il capitolo è suddiviso in quattro parti. Nella prima il tema è il soggetto dell’annuncio: chi evangelizza? (cfr. EG 111-134). «L’evangelizzazione è compito della Chiesa. Ma questo soggetto dell’evangelizzazione è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio» (EG 111). Infatti, più avanti il papa sottolinea che ogni membro del popolo di Dio, in forza del Battesimo, è discepolo missionario, il che comporta un nuovo protagonismo di tutti i battezzati (cfr. Mt 28,19; EG 120).
Il presupposto è il legame tra la realtà profonda della chiesa e la comunione trinitaria. La chiesa non nasce per iniziativa solo umana, ma ha all’origine un sogno di Dio, una chiamata: c’è un primato della grazia che precede l’organizzazione umana (cfr. EG 112).
Dio non salva l’uomo isolatamente, ma convoca un popolo unito in una fraternità che oltrepassa le differenze sociali, religiose, nazionali (cfr. Gal 3,28; EG 113). «La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (EG 114). L’amore trinitario, che unisce nella diversità, si rivolge a tutti; il dono di Dio si incarna perciò nella cultura di chi lo riceve (cfr. EG 115).
L’evangelizzazione non è colonialismo culturale, per cui comporta una forma di assimilazione di chi ne è il destinatario, come è avvenuto in altre epoche. Essa avviene invece mediante inculturazione, per cui le diverse culture trovano posto nella chiesa e arricchiscono l’annuncio del Vangelo, perché contribuiscono ad annunciarlo in modo più ampio e completo (cfr. EG 116).
Le diverse culture sono depositarie della molteplicità dei doni suscitati dallo Spirito santo il quale realizza un’unità in cui non c’è uniformità, ma armonia multiforme.
«Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio cristiano non si identifica con nessuna di esse e possiede un contesto transculturale. Perciò nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica» (EG 117).
È l’umano a essere a immagine e somiglianza di Dio, è l’umano il luogo dell’incarnazione, non una particolare cultura. Farla coincidere con il cattolicesimo sarebbe limitare la ricchezza della Parola di Dio, sacralizzando viceversa un’opera umana. Da questo travisamento possono emergere vere e proprie forme di fanatismo.
Un aspetto dell’inculturazione sono le molteplici forme della pietà popolare che, se correttamente intese, diventano forme di accesso all’esperienza cristiana alla portata di tutti (cfr. EG 122-126). L’importante, osservo a titolo personale, è non assolutizzarle fino a renderle pesi o obblighi che allontanano altri. Si tratta di presentarle come risorse simboliche nel contesto della ricca varietà dell’esperienza cristiana. Così come, tornando all’esortazione, non vanno assolutizzare le formule con cui è annunciata la fede, dal momento che il Vangelo può essere espresso con le categorie (variabili nel tempo) proprie di ciascuna cultura (cfr. EG 129), e nemmeno i particolari carismi ecclesiali; questi ultimi, se sono suscitati dallo Spirito, non hanno bisogno di affermarsi a spese di altre spiritualità e doni (cfr. EG 130). È detto per gli ambienti ecclesiali che manifestano intolleranza per linguaggi ed esperienze diversi dai propri.
Anche il dialogo con le diverse scienze e la filosofia è indispensabile per l’inculturazione della fede e qui occorre il contributo dei teologi con la loro attività di ricerca (cfr. EG 132-134).
Ben due sezioni del capitolo sono dedicate rispettivamente all’omelia (cfr. EG 135-144) e alla sua preparazione (cfr. Eg 145-159). In effetti si tratta pur sempre del principale momento di contatto con la predicazione ecclesiale da parte delle persone. Eppure, risulta spesso poco efficace e significativa. Si sa quanto Bergoglio conti su questo momento: le sue omelie mattutine a Santa Marta sono seguite in tutto il mondo per la loro immediatezza. Certo, desta sorpresa il fatto che ci sia bisogno d’intervenire così intensamente su quella che è la più frequente modalità di comunicazione pastorale a motivo della problematicità in cui versa. È indice di una chiesa non ancora abituata a una comunicazione estroversi, come se ritenesse di avere ancora tutte le pecore nel proprio recinto, invece di preoccuparsi di raggiungerle.
Nell’omelia il prete non deve intavolare un monologo in cui mette in mostra se stesso, ma riaprire il dialogo tra il Signore e il suo popolo (cfr. EG 137), dischiudendo a quest’ultimo il tesoro della Parola. Appartenendo a un contesto liturgico, deve essere breve (cfr. EG 138) ed esprime la maternità accogliente della chiesa con la cordialità, la gestualità, la voce (cfr. EG 139).
È parola vitale, non comunicazione di servizio o lezione. Poiché la fede nasce dall’ascolto della parola di Cristo (cfr. Rm 10,17), l’omelia deve trasmettere il messaggio evangelico e non verità dottrinali o prescrizioni morali (cfr. EG 142-143). Questo non si improvvisa; richiede da parte del prete di dedicare tempo alla Parola, non semplicemente studiandola, ma accostandola con un cuore in preghiera. La preparazione dell’omelia è un’esperienza spirituale, prima che intellettuale. Altrimenti, si diventa come i farisei, deprecati da Gesù perché esigevano dagli altri senza essersi lasciati illuminare dalla Parola di Dio, non l’hanno contemplata, non l’hanno resa viva ed efficace prima di tutto in sé (cfr. Eb 4,12). Il predicatore non è una persona perfetta che si mette in cattedra, ma una persona che cresce nella sua vita interiore e nella sua umanità in quanto davvero ascolta la Parola e le è docile (cfr. EG 145-151).
Papa Francesco raccomanda il ricorso alla lectio divina, il tradizionale metodo monastico di lettura orante della Bibbia, al cui rilancio ha dato grande impulso Carlo Maria Martini, per cogliere il significato proprio del testo biblico insieme a quello che il Signore vuole dire al lettore tramite il testo. Dio rivolge a ognuno la sua parola (cfr. EG 152-153).
Ma non basta. «Il predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola e anche un contemplativo del popolo» (EG 154). Non è un fatto di strategia, ma di sincera premura per le persone e di fedeltà allo stile di Gesù. Ciò richiede anche di prestare attenzione al linguaggio impiegato, alla semplicità, all’uso di immagini che coinvolgono l’ascoltatore, puntando sulla positività del messaggio (cfr. EG 156-159). Era così che Gesù comunicava, incontrando le persone nei luoghi della convivenza, recependo le loro domande e bisogni, aderendo alla concretezza e accendendo l’immaginazione con le parabole.
C’è una breve considerazione che non andrebbe sottovalutata: «Che cosa buona che sacerdoti, diaconi e laici si riuniscano periodicamente per trovare insieme gli strumenti che rendono più attraente la predicazione» (EG 159). Sarebbe un bel passo verso una chiesa meno clericale.
La quarta e ultima parte del capitolo (nn. 160-175) è dedicata all’annuncio del kerygma, cioè il primo annuncio e l’annuncio principale, «quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi» (EG 164). Ci si ricollega così ai nn. 34-36 con l’invito a concentrarsi sul cuore del Vangelo, sul suo nucleo fondamentale che è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto. La risposta di fede a questo amore è l’amore del prossimo (cfr. EG 160). Se viene oscurato questo senso principale, tutto il messaggio cristiano viene alterato. È a partire dagli anni Trenta del XX secolo, con un libro dello storico della liturgia Joseph Jungmann, che si è reclamato un recupero del senso originario del Vangelo a fronte di una predicazione che si riduceva a esposizione dottrinale lontana dalla vita.
«La centralità del kerygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (EG 165).
L’esortazione fa riferimento anche alla catechesi mistagogica, che coinvolge tutta la comunità in un cammino di formazione progressivo in cui sono valorizzati i segni liturgici (cfr. EG 166), e alla “via della bellezza”, la quale richiede di trovare nuovi segni e simboli per esprimere l’annuncio al di là del linguaggio concettuale ricorrendo a forme non convenzionali di bellezza che oggi hanno una particolare efficacia comunicativa (cfr. EG 167).
L’annuncio è un percorso personale che richiede accompagnamento, un’arte della vicinanza, del saper suscitare domande e stimolare alla ricerca (cfr. EG 169-173). Ci vogliono padri e madri nella fede, persone affidabili e autorevoli, ma anche rispettose, che non esercitino un’ingerenza spirituale, perché sanno che l’altro è una “terra sacra” davanti a cui togliersi i sandali (cfr. Es 3,5). L’accompagnamento può rendere possibile l’esperienza di vede, ma non deve forzarla o determinarla; non è e non può essere il conformarsi a uno schema scandalizzato, è unica per ciascuno.
La Parola di Dio come fonte e fondamento dell’evangelizzazione è richiamata in chiusura del capitolo (cfr. EG 175-176). La chiesa evangelizza solo se si lascia prima continuamente evangelizzare dalla Parola, la quale dovrebbe stare al cuore di ogni attività ecclesiale. Trovo un punto debole del documento aver posto solo a questo punto un tema di tale importanza.
Parola e sacramento; mensa della Parola e mensa eucaristica sono un tutt’uno nell’alimentare il cammino di fede, ma lo spazio della prima è ancora limitato nell’esperienza ordinaria dei credenti, nonostante la fine del suo esilio grazie al Vaticano II con la Dei Verbum.
«Lo studio della Sacra Scrittura dev’essere una porta aperta a tutti i credenti. È fondamentale che la Parola rivelata fecondi radicalmente la catechesi e tutti gli sforzi per trasmettere la fede. L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le organizzazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria» (EG 175).
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