Il destino di molti documenti ecclesiali è quello di restare chiusi nei cassetti, senza essere conosciuti e attuati. Non è detto che sia sempre un male: sono in numero eccessivo e spesso ridondanti. Non così per l’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” (EG) di papa Francesco, in cui è disegnato un volto di chiesa che deve prendere corpo. Un gruppo di preti e laici con cu mi ritrovo da alcuni anni, in un’esperienza di amicizia e fraternità, mi ha chiesto di tenere una breve presentazione del testo per uno scambio tra di noi. Condivido questi miei appunti nella speranza di offrire un servizio per far conoscere questo importante testo e farne cogliere la portata.
«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrò, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
Questa domanda di Gesù interpreta la realtà di oggi: un cristianesimo ormai di minoranza in cui si sono interrotti i canali tradizionali di trasmissione della fede e le forma di vita cristiana delle generazioni precedenti si sono svuotate e hanno subito un abbandono di massa. La vita ordinaria delle persone e la loro vicenda interiore possono prescindere senza problemi dall’esperienza umana. È un dato di fatto ormai risaputo e consolidato nei paesi di antica cristianità. Già nel 1990, Giovanni Paolo II ha sollecitato a passare da una pastorale della conservazione alla missione. Le ricadute sulla realtà ecclesiale, bisogna riconoscerlo, sono state minime. In Italia, il convegno ecclesiale di Verona del 2005, con l’indicazione degli ambiti antropologici per cui la pastorale doveva indirizzarsi ai vissuti concreti delle persone, e la successiva nota pastorale (Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia) non hanno lasciato segni profondi.
Come mai? A mio avviso, gli inviti a un rinnovamento missionario della pastorale è caduto su un terreno non adatto. Dopo il concilio Vaticano II, a fronte di aggiornamenti decisivi ed evidenti (come nell’ambito liturgico) è la realtà feriale della chiesa a essere rimasta maggiormente statica. È vero che c’è stato un ampliamento degli ambiti della pastorale e un sempre maggiore coinvolgimento dei laici, ma unitamente al permanere di schemi e impostazioni risalenti al periodo tridentino, a cui ha contribuito una spinta romana al centralismo e all’università. Di fatto, nonostante le enunciazioni, la spinta più forte è stata quella alla conservazione. La missione è stata declinata più nei termini di una forte presenza pubblica che nell’assunzione di uno stile evangelico nell’abitare la società alla maniera del lievito nella pasta. I mali persistenti, in un contesto del genere, sono il clericalismo, la riduzione dell’esperienza cristiana alla pratica religiosa e all’etica, il distacco tra l’esistenza e la fede, un annuncio prevalentemente dottrinale.
Rispetto a questo quadro, l’esortazione di papa Francesco spinge verso un cambio di orientamento che una parte consistente dei vescovi e del clero ordinati negli ultimi anni non è forse pronta a recepire. La scelta esposta nell’introduzione di evidenziare la gioia come contrassegno di chi ha accolto il Vangelo e lo comunica agli altri va a toccare un punto cruciale.
La mancanza di gioia era proprio la contestazione principale mossa da Friedrich Nietzsche, il cui pensiero è rappresentativo dell’uscita da Dio del mondo moderno, come si legge in Umano troppo umano: «Le vostre facce sono state per la vostra fede più dannose delle vostre ragioni. Se il lieto messaggio della Bibbia vi stesse scritto in viso, non avreste bisogno di esigere così costantemente fede nell’autorità d questo libro».
Una fede animata dalla gioia è la fede di chi ha fatto esperienza di un incontro che lo ha rinnovato interiormente, nell’apertura di un nuovo orizzonte di vita, per cui si trova una profonda fiducia che rimane salda anche nei passaggi tormentati. È la differenza tra la fede autentica e una fede narcisistica e individualistica, un’ideologia in cui l’io si protegge e si gratifica. «Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio di Dio per noi, questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio di Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito che sgorga dal cuore del Cristo risorto» (EG 2).
Il problema dei cristiani nel mondo contemporaneo non è quello d’istaurare una sorta di competizione con chi non crede o crede in una fede diversa, cercano i mezzi per prevalere. Questo renderebbe la chiesa un potere religioso in lotta contro altri poteri. Il vero problema dei credenti è quello spirituale, cioè avere un cuore che si piega al Vangelo e non alle tentazioni idolatriche, anche quelle che assumono forma religiosa. È un problema che si coglie, riallacciandomi a quanto scrive Bergoglio, quando si incontrano persone che si sono armate dentro e in quanto tali abitano il mondo e la storia. Possono presentarsi con una veste di perfetta ortodossia, ma non vivono la prossimità, chiudendosi anche all’incontro con Dio. L’evangelizzazione non è un fatto di persuasione dell’altro, ma innanzi tutto di conversione del cristiano che conduce una vita pienamente umanizzata (cfr. EG 8) e in tal modo è testimone anche quando non si dichiara tale. Non evangelizzare per proselitismo, ma per attrazione. Siamo evangelizzatori nella misura in cui siamo evangelizzati e la nostra vita cresce e matura, perché la fede cristiana è realizzazione dell’umano e non fuga da esso. Il cristiano sa relazionarsi con gli altri e con le cose nella logica della comunione e non del possesso predatorio.
La nuova evangelizzazione non è tale perché impiega tecniche o strategie all’avanguardia, ma perché ritorna al Vangelo che non si esaurisce in formule e prassi codificate una volta per sempre, come se fosse una verità che i cristiani possiedono e si limitano a trasmettere agli altri; invece «la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità» (EG 11). Certamente il discernimento di questa novità avviene nel legame con la memoria della tradizione, s’innesta in una storia viva che non è un reperto da museo da preservare sotto vetro, ma è maturazione dei frutti propri di ciascuna stagione che scaturiscono dalla sua linfa.
L’introduzione del documento si conclude con l’indicazione delle tre “soglie” principali dell’evangelizzazione (i battezzati praticanti, i non praticanti e i lontani dalla chiesa) e della prospettiva pastorale verso cui papa Francesco vuole indirizzare la chiesa cattolica. «Sono innumerevoli i temi connessi all’evangelizzazione nel mondo attuale che qui si potrebbero sviluppare. Ma ho rinunciato a trattare in modo particolare queste molteplici questioni che devono essere oggetto di studio e di attendo approfondimento. Non credo neppure che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva e completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territorio. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (EG 16).
Ecco la vera novità di fondo: qui c’è un cambio nel modo di pensare e vivere la chiesa cattolica. Con una terminologia tecnica, potremmo dire che viene annunciato un cambio di paradigma ecclesiologico. Assieme alla conversione interiore del cristiano ci deve essere una conversione visibile della comunità cristiana. Decentralizzazione significa che non c’è semplice recezione di decisioni e pronunciamenti che vengono dall’alto, secondo una visione piramidale che si è sempre più accentuata fino al Vaticano II e che l’esplosione mediatica della figura del papa ha di nuovo alimentato negli ultimi decenni saldandosi con le intenzioni di certi ambienti cattolici. Viene prospettata una chiesa più comunionale, più fraterna, più sinodale in cui si cammina insieme nella corresponsabilità della fede condivisa e della medesima dignità battesimale, valorizzando la pluralità dei carismi, senza che uno (fosse pure quello del pastore universale) prevalga sugli altri.
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