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"Guerra finita tra il Vaticano e la teologia della liberazione", così titola Vatican Insider in occasione dell'immimente pubblicazione in Italia del libro scritto dal vescovo Muller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e curatore dell'opera omnia di Joseph Ratzinger, insieme a Gustavo Gutierrez, padre fondatore della teologia della liberazione.
Muller ha descritto le sue esperienze con la teologia della liberazione ricevendo una laurea honoris causa a Lima nel 2008. Ecco il suo discorso.
La teologia della liberazione per me è unita al volto di Gustavo Gutiérrez.
Nel 1988 ho partecipato, insieme ad altri teologi di Germania e Austria, e su invito dell’attuale direttore del Misereor, José Sayer, ad un corso su questo tema, che si è svolto nel già allora famoso Istituto Bartolomeo de Las Casas. A quel tempo insegnavo già da due anni teologia dogmatica presso l’Università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera.
Come insegnante di teologia, mi erano naturalmente familiari i testi e i rappresentanti noti di questo movimento teologico sorto nell’America Latina, sul quale però si discuteva in tutto il mondo, soprattutto sulla scia delle osservazioni, in parte critiche, della Commissione Teologica Internazionale della Congregazione per la Dottrina della Fede, e sulla base delle dichiarazioni del 1984 e del 1986 della stessa Congregazione, presieduta allora dal cardinale Joseph Ratzinger, il nostro attuale Papa Benedetto XVI.
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Articolo di Bruno Simili, dal sito della rivista "il Mulino".
Qualche giorno fa, incontrato nel suo studio milanese, Vittorio Gregotti raccontava di una delle sue prime esperienze da docente universitario. Durante un esame, nel tentativo di incoraggiare uno studente incerto, chiese quale fosse l’ultimo libro letto dal futuro architetto: il ragazzo balbettò, salvo, alla fine, citare un manuale che stava preparando per un nuovo esame. Il saggio e paziente professore a quel punto spiegò che intendeva “altri” libri, non testi di architettura: romanzi, ad esempio. Dall’altra parte il vuoto. Un ventenne nel pieno dei suoi studi universitari non aveva, di fatto, quasi mai letto un libro di letteratura. Non è, purtroppo, un caso estremo. Negli anni ho maturato una certa insofferenza nei confronti dei miei amici che insegnano all’università e che non mancano di infarcire i loro discorsi a tavola con aneddoti sulla crassa ignoranza dei loro studenti. Eppure è difficile ignorare come e quanto sia cambiato, per chi sta entrando nella vita adulta, il concetto di avere o farsi una “cultura”. Nella scuola e fuori da essa.
Un paio di giorni fa, Claudio Giunta (che è sì un professore universitario ma, almeno, non mi risulta abbia mai raccontato in pubblico episodi spiritosi sull’impreparazione o l’inadeguatezza dei propri studenti), mi ha fatto leggere una sua cosa per “Internazionale”, dove tra l’altro riprendeva una citazione da Hannah Arendt. Questa:
“La società moderna, nella sua disperata incapacità di formulare giudizi, è destinata a prendere ogni individuo per ciò che egli stesso si considera e si professa e a giudicarlo su questa base. Una straordinaria fiducia in se stessi e l’esibizione di questa fiducia susciterà perciò fiducia negli altri; la pretesa di essere un genio desterà negli altri la convinzione di trovarsi di fronte a un genio. Si tratta solo della degenerazione di una vecchia e provata regola di ogni buona società, secondo la quale tutti devono essere capaci di mostrare ciò che sono e di presentarsi nella giusta luce. La degenerazione avviene quando il ruolo sociale diventa, per così dire, arbitrario, quando cioè è completamente staccato dalla sostanza umana effettiva, quando un ruolo svolto con coerenza viene accettato acriticamente come la sostanza stessa. In una simile atmosfera diviene possibile ogni genere di frode”.
La Arendt (sì, “la” Arendt, chiedo scusa ma mi viene così, politicamente molto scorretto) parlava di Hitler. Però le sue parole ci aiutano anche oggi. Ad esempio, a capire l’irrilevanza della gran parte del dibattito pubblico che, come ricorda Giunta, “è tutto soltanto un libero scambio d’opinioni tra persone che sanno esattamente le stesse cose, cioè le stesse parole che stanno intorno alle cose, che potrebbero scambiarsi le parti e di fatto se le scambiano, il parlamento è pieno di ex giornalisti”. Un mondo dove, appunto, diviene possibile ogni genere di frode. E dove, sin da piccoli (si fa per dire, sin dalla prima, vera prova “intellettuale” che tocca tutti o quasi: la maturità), si viene invitati a far credere di sapere ciò che non si sa, di capire ciò che non si è capito. Citando Canetti, il grande e scurissimo Canetti; o Claudio Magris, per aggiornare il fondale mitteleuropeo. O ancora economisti di gran moda come Zingales e, per par condicio, il Nobel Krugman.
Una insegnante di scuola superiore spiegava questa mattina a “Prima pagina”, con piglio da dirigente scolastico che fa molto caso all’efficienza e ai risultati ottenuti nel proprio istituto sulla base delle prove Invalsi, come tutti noi che siamo rimasti un po’ sorpresi dalle tracce, anzi dai “documenti” che accompagnavano la prova d’italiano, non avessimo capito nulla. Non si tratta di avere fatto o no nel programma gli autori richiamati, spiegava: i testi segnalati, piuttosto, oscuri o meno che siano, andavano presi come spunto per una riflessione.
Sicché, ancora una volta, si tratta di riuscire a far credere a chi poi ci valuta d’aver capito tutto, o quasi. Che poi nessuno dei maturandi, o certamente troppo pochi, da quella traccia venga invogliato non dico a comprare ma almeno a leggere capolavori come La lingua salvata o Auto da fé poco importa. Perché ciò che conta, alla fine – sempre, naturalmente e cultura a parte – è soprattutto il voto.
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Non c'è vita umana senza comunicazione, senza parola.
E' con le parole che esprimiamo i nostri sentimenti e ciò che per noi è più importante. Chi non ha bisogno di sentirsi dire "Ti amo" o "Ti voglio bene", da un genitore, un coniuge, un figlio, un amico...
Cerchiamo le parole di canzoni, libri, poesie per riconoscerci, per esprimere gioia o dolore, per trovare conforto nei momenti difficili. Cerchiamo parole buone, che facciano bene alla nostra vita.
Il teologo Karl Rahner distingueva tra parole che sono come farfalle morte, infilzate nelle vetrine dei vocabolari, e parole viventi che sono simili a conchiglie, dentro le quali risuona il vasto mare dell'infinito. Sono quelle che ci illuminano e danno un significato alla nostra esistenza. Restano dentro; possiedono una semplicità che non richiede spiegazioni e ci riempiono, perché sentiamo che dicono qualcosa di vero e di bello.
Grazie alle parole riusciamo a vincere lo spazio e il tempo. Le voci del mondo, i messaggi dei grandi uomini e delle grandi donne della storia ci raggiungono così. Grazie alle parole riusciamo a guardare persino oltre la barriera della morte: ci aiutano a sentire presenti i nostri cari, ma anche a non dimenticare le importanti verità umane.
Per la tradizione cristiana le parole buone e decisive sono quelle della Bibbia, da millenni proclamate nelle sinagoghe e nelle chiese. Noi, oggi, facciamo fatica ad ascoltarle. Ci sembrano lontane, difficili, aride. Pensiamo che siano elenchi di regole, storie strane e distanti dalla nostra vita, teorie un po' fantasiose su Dio...
Lo pensiamo perché la Bibbia per noi è chiusa, è sconosciuta. Proviamo però a chiederci: perché è così importante che in ogni epoca ha trovato chi l’ha ascoltata e trasmessa ad altri? Perché è come un fiume che attraversa il tempo ed è arrivato fino a noi oggi?
Perché è il racconto di come donne e uomini venuti prima di noi hanno fatto un'esperienza di Dio che ha cambiato in meglio la loro vita. E in quelle esperienze altri si sono riconosciuti e le hanno scoperte vere anche per loro; hanno detto: "Sì, mi fido. Ci credo anch'io".
Il senso della Bibbia è spiegato da Giovanni all'inizio della sua lettera:
Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita.
Non un'idea, ma una presenza vista, udita, toccata.
Come dire che la Bibbia non è una raccolta di chiacchiere, ma una parola unica, diversa da tutte le altre, perché apre una realtà nuova, ci crea di nuovo, ci cambia. Basti pensare a come gli stessi testi biblici ne descrivono l'effetto: viva ed efficace, spada a doppio taglio, fuoco e martello, lampada che illumina il cammino, medicina che guarisce e dà sollievo, pane che nutre e dà vigore...
Il termine ebraico davar, che traduciamo con "parola", significa anche "cosa", "evento", "azione". Leggere la Bibbia fa succedere qualcosa dentro di noi. Proviamo allora ad aprirla, a conoscerla, a farla nostra.
Questi appunti fanno parte di una serie di testi che sto preparando quest'estate per la mia unità pastorale. Abbiamo deciso di mettere al centro della comunità l'ascolto della Parola, incoraggiando a praticarlo personalmente, anche attraverso dei brevi sussidi. Condivido questi testi sul blog per ricevere pareri e osservazioni.
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Rosino Gibellini, dall'intervento al Convegno "La città multiculturale".
Il pensiero cristiano ha elaborato in questi decenni le linee di una «teologia dello straniero». Essa ripensa le verità centrali della visione cristiana, utilizzando questa categoria: Dio come lo straniero, in quanto pensato come il totalmente Altro dal mondo e come il mistero assoluto; Cristo come l’ospite straniero, che, nel linguaggio del vangelo di Giovanni, «venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno ricevuto»; lo Spirito Santo come lo Spirito di pentecoste, che «non abolisce le differenze, come tali, ma toglie loro il senso di mutua inimicizia, le rende fluide, le rende “comprensibili”, garantisce la molteplicità dei carismi». E viene sottolineato il grande testo di Matteo 25, 38-43, in cui il Cristo giudice si identifica con i poveri, con chi ha fame e sete, con lo straniero (xénos): «Ero straniero e mi avete accolto»; «ciò che avete fatto allo straniero, lo avete fatto a me». Lo straniero è la presenza di Cristo. Ma vengono ricuperati anche testi dalla tradizione cristiana come la Lettera a Diogneto, che caratterizza i cristiani come minoranza e come stranieri nel mondo, come «residenti stranieri».
Sullo sfondo di questa tradizione, nonostante le ambiguità della storia, si comprendono le parole del papa Giovanni Paolo II nel messaggio mondiale dei migranti del 1995: «Nella Chiesa, nessuno è straniero e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e a nessun luogo. In quanto sacramento di unità, e dunque segno e forza di aggregazione di tutto il genere umano, la Chiesa è il luogo dove gli immigranti anche in situazione illegale sono riconosciuti e accolti come fratelli. Le diverse diocesi hanno il dovere di mobilitarsi perché queste persone, costrette a vivere aldifuori della protezione della società civile, trovino un sentimento di fraternità nella comunità cristiana». Questo concetto di fraternità, adelphôtes, non si trova mai nelle opere pagane pre-cristiane; e tardivo nei testi dell’Antico Testamento e negli altri scritti giudaici; secondo il lessico del Nuovo Testamento non significa philadélphia, l’amore del fratello (che può subire restrizioni parentali, etniche, nazionali), ma significa philanthropía, amore dell’essere umano, amore del simile. La fraternità cristiana è amore del fratello, in quanto essere umano. La parola fraternità all’europeo richiama anche il motto della rivoluzione francese. Ma, in un recente testo (2004) per la pastorale dei migranti elaborato in Francia, si osserva, con una qualche ironia: «La Fraternità repubblicana si scrive con la maiuscola. Che sia la fraternità cristiana a farle rimettere i piedi per terra? La fraternità sono dei fratelli in carne e ossa, dei fratelli reali».
Ma: si può vivere insieme? Si può vivere-bene-insieme? Cito il saggio dello storico con vasta esperienza internazionale Andrea Riccardi, dal titolo Convivere (2006), dove si analizza l’intricata situazione internazionale, dopo la caduta delle ideologie, nel tempo della globalizzazione, del terrorismo internazionale, degli attentati di Madrid e di Londra, della rivolta della banlieu, e dove, alla fine, si propone come strategia, ma anche come diplomazia, e come azione pratica, quella che viene chiamata «la civiltà del convivere». Scrive, con lo sguardo rivolto in campo internazionale: «Siamo tutti diversi, difficilmente unificabili; ma anche uniti da tante connessioni culturali e politiche, finanziarie e geografiche, positive e negative. Sono scomparsi gli imperi e le ideologie unificanti. [...] È la realizzazione di una civiltà fatta di tante civiltà – se si vuole usare questa espressione – o di tanti universi culturali, religiosi e politici. La coscienza della necessità della civiltà del convivere è l’inizio di una cultura condivisa tra uomini e donne differenti».
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Secondo Kant, nella sua Critica della ragion pura, sono tre le domande che la nostra intelligenza non può fare a meno di porsi:
Che cosa posso sapere?
Che cosa devo fare?
Che cosa posso sperare?
Leggendo il libro di Enzo Bianchi, Fede e fiducia (Einaudi), viene da dire che ce n'è una quarta: di chi mi posso fidare? Scoprire l'importanza della fiducia è dare il giusto peso a una dimensione della condizione umana che la razionalità occidentale ha sottovalutato.
Certo, il tema della fiducia è a ben vedere una costante implicita del pensiero moderno. La riflessione sullo Stato, a cominciare dal Leviatano di Hobbes, non è forse la ricerca di un ordine sociale e politico affidabile a fronte dell'incertezza dell'homo homini lupus, che è la paura del disordine e della violenza?
Di recente il tema della fiducia è stato preso in esame dalla riflessione economica e dalla sociologia. Penso in particolare ad Anthony Giddens che ha spiegato come l'accettazione della modernità si fondasse su una tacita fiducia nella sicurezza delle sue istituzioni e dei suoi apparati tecnici. Prendo l'aereo, perché so che funziona e ho fiducia che arriverò a destinazione. Vado a votare, perché mi fido del funzionamento del sistema elettorale per garantire giustizia e governo.
Progressivamente, lo dice da anni Ulrich Beck, si è però accresciuto il senso di rischio e la fiducia è stata via via sostituita dall'angoscia. La politica e l'economia, ma anche la chiesa e la famiglia, hanno perso credibilità e sembrano incapaci di rispondere ai disagi delle persone. Ecco come mai si moltiplicano le voci che insistono sull'importanza del recupero della fiducia per uscire dalla nostra crisi (mi viene in mente l'ultimo libro di Michela Marzano).
Il volumetto di Enzo Bianchi si inserisce in questo contesto e raccoglie in forma compiuta alcune riflessioni che il priore di Bose sta portando avanti da tempo. Ne ha parlato anche quando l'ho invitato, in aprile, qui a Crema (v. il post La comune ricerca dell'affidabilità).
Con le mie considerazioni vorrei soffermarmi su due aspetti del discorso.
Il primo è il modo in cui si parla della fede cristiana. Il filosofo di Cambridge Arif Ahmed, in una conferenza alla Normale di Pisa, liquidava il discorso sulla religione dicendo sostanzialmente che è inutile perché mancano le prove. Porre in questi termini la questione della fede è un abbaglio comune a chi cerca a tutti i costi di provare l'esistenza o la non esistenza di Dio. Anche nel cristianesimo, per secoli, ha prevalso un approccio razionalista alla teologia che riduceva il discorso di fede ad adesione a un sistema dottrinario che si pretendeva perfettamente dimostrabile.
Ciò che è sottoponibile a verifica empirica o razionale copre solo una parte della esistenza e della conoscenza umana. Ahmed dovrebbe saperlo, in quanto studioso di Wittegenstein, pensatore che si è ricreduto sul valore assoluto del linguaggio logico-matematico.
Le dimostrazioni riguardano oggetti e concetti, mentre la fiducia entra in campo quanto è in gioco qualcosa di decisivo per la mia vita e il significato che le attribuisco ed è sempre legata alla relazione con qualcuno. E noi non esistiamo al di fuori delle nostre relazioni.
Enzo Bianchi lo ha spiegato bene in un articolo di alcuni anni fa che anticipava i temi del libro.
Noi esseri umani, a differenza degli animali, usciamo incompiuti dall’utero materno, e per venire al mondo e crescere come persone abbiamo bisogno di qualcuno in cui mettere fede-fiducia. Riflettiamo su quante azioni della nostra vita dipendono dal nostro avere fede… È possibile crescere senza avere fiducia in qualcuno, a partire dai genitori? È possibile iniziare a percorrere una storia d’amore senza avere fede nell’altro? È possibile costruire legami solidi senza fondarli sulla roccia della fiducia nell’altro? Sì, in tutta la vita dobbiamo avere fede, fare fiducia, credere a qualcuno.
Quando accediamo alla pienezza delle relazioni, in quelle più personali e intime come in quelle sociali e pubbliche, dobbiamo fidarci, fare credito all’altro. In breve, non si può essere uomini senza credere, perché credere è il modo di vivere la relazione con gli altri; e non è possibile nessun cammino di umanizzazione senza gli altri, perché vivere è sempre vivere con e attraverso l’altro. È proprio in ragione di questa «umanità» della fede, che possiamo leggere l’attuale crisi della fede come innescata dalla crisi dell’atto umano del credere, un atto divenuto difficile e sovente contraddetto. Abbiamo difficoltà a credere all’altro, siamo poco disposti a fare fiducia all’altro, non osiamo credergli fino in fondo. Lo constatiamo ogni giorno: perché si preferisce la convivenza al matrimonio? Perché è diventata così difficile la storia perseverante nell’amore? Perché così spesso soffriamo a causa della separazione, del venire meno dell’alleanza nell’amore umano o dell’alleanza stretta all’interno di una vita comunitaria? La verità è che non siamo più capaci di porre, nella nostra vita, l’atto umano del credere. E in questa situazione di estrema precarietà, come poter ritrovare una fede salda? Forse proprio ricominciando ad aver fiducia nelle più banali situazioni quotidiane, forse proprio nel porre davanti a Dio l’incertezza che caratterizza il nostro vissuto, forse nell’abbandonarci fiduciosi nelle mani di colui che Gesù di Nazaret ci ha insegnato a chiamare «Padre».
Qui ci spostiamo all'altro aspetto che volevo evidenziare. La ricerca della fiducia è oggi comune a tutti, credenti e no. E' una necessità per il nostro tempo. I cristiani dovrebbero approfondire e saper comunicare, con la propria vita prima che con le parole, l'affidabilità dell'uomo-Gesù. Non per imporla come idelogia, ma per stare dentro questo cammino di umanizzazione.
C'è però un dato che nel testo è certamente presente, ma che richiederebbe di essere approfondito. Lo ha colto un importante e difficile saggio di teologia fondamentale scritto da Pierangelo Sequeri, Il Dio affidabile (non a caso lo cito!).
Il fatto è che per l'uomo storico, per quanto sia religiosamente ben disposto, la verità di Dio reppresentata da Gesù e in Gesù è teologicamente difficile da ricevere. Bisogna perciò leggere e rileggere il testo; riascoltare la parola e rivedere il gesto di Gesù, per scoprire sempre e di nuovo che la rivelazione stava sempre per essere perduta (p. 198).
La fede cristiana è a un tempo facile, perché sta tutta nella vicenda umana di Gesù e non in complicate impalcature religiose, ma difficile. La consonanza tra noi e la parola che ci racconta Gesù non è facile per tanti motivi culturali e soprattutto per le nostre contraddizioni interne. Più che un'evidenza ci può essere, almeno io credo che sia così, un'intuizione a cui rimanere fedeli nella pazienza, nella ricerca, nell'attesa.
La fede non può essere sbandierata, imposta, perché non è merito o vanto. E' un difficile esercizio di umanità in cui sostare anche quando i conti non tornano e non ci vediamo affatto chiaro. Eppure, nell'uomo di Nazaret c'è un'attrazione che persiste, un tratto che tocca corde profonde della nostra umanità.
Scritto alle 16:11 nella Spiritualità | Permalink | Commenti (0) | TrackBack (0)