L'elezione di un papa riguarda solo la chiesa cattolica, o ha un significato più ampio che interpella anche i non credenti? La scelta che i cardinali dovranno compiere nel conclave è solo quella di dare un governo al cattolicesimo?
Ieri sera, insieme a preti e laici della diocesi di Crema, ho incontrato il nostro vescovo per uno scambio sulla pastorale che portiamo avanti. Ho rilevato che c'è un calo di fiducia nei confronti della chiesa cattolica. La crisi economica è anche una crisi di speranza, di capacità di guardare al futuro, che può tradursi in immobilismo, scontri tribali, rottura della solidarietà all'insegna del mors tua, vita mea. In questo momento, più di tutto, le persone (anche i non credenti o i diversamente credenti) hanno bisogno di una chiesa che annunci e susciti speranza. Non una chiesa che si ponga come parte nelle contese e persegue dei propri interessi, ma che abbia verso tutti un volto libero, accogliente, incoraggiante.
Un articolo di Ilvo Diamati, proprio oggi, ha tradotto in numeri il calo di fiducia nella chiesa degli ultimi dieci anni. Massimo Franco pubblica un libro, La crisi dell'impero Vaticano (Mondadori), che analizza l'impatto negativo di una serie di eventi nazionali e internazionali sul prestigio dell'istituzione ecclesiale che si ritrova sempre più circondata da diffidenza o indifferenza. L'incapacità di reagire, finendo con il subire una continua perdita di autorità morale e spirituale, è associata al fallimento di un modello di governo e di una concezione del papato.
I cardinali possono scegliere la linea di una difesa dell'identità a oltranza, rassicurando la minoranza che sta dentro e facendosi ignorare dagli altri. Sarebbe una difesa dell'istituzione e di ciò che è tradizionale (ben diverso dalla vera tradizione, plurale e viva). Un papa che rappresenti una chiesa accoglie e che sa trasmettere speranza al di là dei propri confini confessionali sarebbe una vittoria contro la tentazione dei fondamentalismi religiosi, ma potrebbe anche essere un segno di incoraggiamento per un mondo oggi segnato da angoscia e pessimismo.
Per poter compiere questa scelta, è necessario un bilancio oggettivo su questo papato, ma anche sul precedente:
Ratzinger ha cercato si essere, come diceva Montesquieu del suo omonimo predecessore Lambertini, “il papa dei dotti”. Ha preso le distanze dalle forme del “governo carsimatico” di Wojtyla. Ma alla fine ha condiviso II con lui una linea di fondo: l’idea di rompere con le parole d’ordine di Paolo VI: mediazione, dialogo. Combattere per una chiesa “forte”, nell’idea che il coraggio della fede coincidesse col valore della chiesa nello spazio pubblico.
Ratzinger, con la consequenzialità logica che è la sua, s’è così mosso in un orizzonte tutto europeo e tutto filosofico. I grandi orizzonti politici globali sono svaniti.
E' riuscita questa scommessa, oppure oggi deve lasciare il passo a una nuova prospettiva? Non è casuale, a mio avviso, che ciò che di Giovanni Paolo II ha lasciato più il segno nel mondo sono stati i gesti, la testimonianza personale. E Benedetto XVI non è mai stato sentito così vicino come ora, che nei fatti, prima ancora che con un'elaborazione teologica, ha presentato il servizio papale in una chiave che riduce l'eccesso di sacralizzazione della persona che lo svolge.
La risposta non può che venire dal Vangelo, che è innanzi tutto narrazione di come l'umanità accogliente di Gesù ha rivelato Dio e il suo amore negli incontri con le persone. Una rivelazione che nasce nella libertà e nell'interiorità. Quale stile di cristianesimo, di chiesa, di papato favorisce oggi questo incontro?