Carlo Maria Martini era diverso, differente, potremmo dire unico nel panorama della Chiesa cattolica e della cultura italiana.
Dopo le tante, e significative, parole dette su di lui in questi giorni, aggiungere ancora qualcosa potrebbe essere superfluo. Tanto più che non l'ho conosciuto direttamente. Mi sono nutrito con i suoi scritti e di Martini conservo solo un cortese biglietto di 16 anni fa, in risposta a una mia lettera dettata dall'idealismo giovanile. Avendo però seguito con attenzione le reazioni alla sua morte, ritengo di poter dire una parola che ho meditato attentamente.
Vorrei partire da tre fatti, che in quanto tali hanno il pregio dell'oggettività.
Il primo è il popolo di centinaia di migliaia di persone che lo hanno voluto salutare, recandosi a visitare la salma o ai funerali. Una presenza sorprendente, per un uomo anziano e malato, che da dieci anni non aveva più incarichi nella Chiesa cattolica e da quattro anni non appariva più in pubblico. Tra queste presenze, secondo fatto, gli esponenti della comunità ebraica che hanno recitato pubblicamente i salmi durante la sua agonia e davanti all'arcivescovado milanese. Segno di un apprezzamento che oltrepassava la cerchia dei cattolici e persino dei credenti. Mi ha colpito chi, su Twitter, ha scritto che da ateo avrebbe pregato per Martini, definendolo illuminante perché sapeva ascoltare. Infine, il video dell'abbraccio sincero e affettuoso tra Martini e Benedetto XVI all'incontro delle famiglie di giugno, con il cardinale che ha atteso il papa in piedi nonostante le sue condizioni. Segno di un legame profondo con il pastore della chiesa e con la persona di Joseph Ratzinger che le differenze non cancellavano.
Cosa ci dicono questi tre fatti? Carlo Maria Martini era un grande uomo. Non è stato solo un biblista insigne, un intellettuale. Non solo ha guidato una delle maggiori diocesi cattoliche del mondo. Al di là di questi aspetti, egli aveva un'alta statura umana e cristiana. Era autentico, credibile. Non amava segni del potere e privilegi, ha ricordato Marco Garzonio, e ha sempre avuto un'attenzione speciale per i poveri, dalle sue visite ai diseredati di Roma a quelle ai detenuti di San Vittore. Anche nella malattia e nella morte, concordano i racconti, si è dimostrato un contemplativo, testimoniando serenità e incoraggiando chi soffriva come lui.
«Era attirato dal Vangelo, - ha detto di lui il priore di Bose, Enzo Bianchi - voleva vivere secondo il Vangelo. Non aveva strategie, le tattiche politiche erano qualcosa di totalmente sconosciuto per lui, che invece si arrendeva a ciò che considerava Vangelo. La sua regola era il Vangelo vissuto. E in nome del Vangelo vissuto era capace di modificare le sue posizioni, lo faceva quando capiva che era il Vangelo a chiederglielo».
La sua parola aveva autorità e raggiungeva perciò persone anche molto diverse, era ascoltata anche da chi era lontano.
Ecco perché Benedetto XVI, nel suo messaggio per le esequie, lo ha definito "pastore generoso e fedele", "instancabile servitore del Vangelo e della Chiesa". E i riconoscimenti sono stati innumerevoli. A fronte di questa grandezza oggettiva, suonano fuori luogo e di cattivo gusto le voci di chi da subito ha cercato di denigrarne la memoria o di sminuirla, minimizzandolo o facendogli da controcanto, soprattutto quando si tratta di cattolici come lui. Non perché ci debba essere unanimità nella lode sperticata e si debba idolatrare la persona, ma perché il disaccordo che vuole a tutti i costi svilire una persona è malevolo. Ben diverso da un disaccordo leale e onesto. Sono, però, convinto che certe voci non lasceranno grande traccia, mentre Martini sarà ricordato quale un Padre della Chiesa della nostra epoca, come sostengono Enzo Bianchi e Gianfranco Brunelli, direttore de Il Regno.
Proprio Martini ha dato ben altra lezione: se pure c'è stato disaccordo, su alcuni aspetti, tra lui e papa Ratzinger, mai ne ha sminuito la persona. E qui veniamo al punto che più mi interessa: la differenza di Martini. In che cosa e come si è manifestata?
Innanzi tutto, in una parola che non si limitava a ripetere slogan e stereotipi ecclesiali, ma aveva un'incisività particolare. Sapeva "dire" la fede, la novità evangelica in un modo che affascinava. Ricordo da giovane, avevo già letto alcuni suoi scritti, quanto mi colpì la lettera pastorale Ripartiamo da Dio. Non era scritta in gergo; non era arida, ma viva e appassionata e puntava all'essenziale.
Questa sua parola così efficace, molti lo hanno ricordato, nasceva da un intenso ascolto della Scrittura nella preghiera, per ruminarla, assimilarla, farla propria. Si pensi a quanto ha fatto per diffondere la pratica della lectio divina e al versetto 105 del salmo 118, scelto per la sua lapide: Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino. Ma era una parola che nasceva anche da un profondo ascolto degli altri, rispettandone la persona e l'identità, per cui sapeva trovare un aggancio con la loro vita. Troppi ecclesiastici parlano "sopra le teste". Se il Vangelo non avesse risonanze nella vita dei non cristiani e non credenti, non avrebbe un valore universale. Martini è sempre stato proteso verso questa "apertura" del linguaggio cristiano, un'attitudine chiaramente radicata nel Concilio Vaticano II.
Era un atteggiamento che dava fastidio a chi concepisce l'identità cattolica come in competizione con le altre. Se n'è avuto un'eco nel profilo biografico di Martini dell'Osservatore Romano, in cui la celebre "Cattedra dei non credenti" non è nominata come tale ed è invece definita "una serie di incontri, iniziati nell’ottobre 1987, sulle 'domande della fede', pensati per le persone in ricerca". Il quotidiano vaticano, peraltro, ha dedicato ampio spazio al cardinale e con parole lusinghiere, ma questa "fatica" a chiamare la Cattedra con il suo nome è indicativa.
Sembra quasi che ascoltare il non credente, o comunque "l'altro", voglia dire rinunciare al Vangelo. E' questione invece di rispettare autenticamente l'altro, riconoscendo ciò che di buono e di vero porta. E' un arricchimento, non un impoverimento.
Martini si è dimostrato differente anche per il suo ruolo civile, per come ha saputo indicare la via del bene comune, al di là di interessi di parte, della giustizia e della solidarietà in stagioni difficili come gli anni del terrorismo e di Tangentopoli. Ha incarnato una chiesa che si preoccupa per la polis senza tentazioni egemoniche o di riconquista.
Infine, è stato differente per come ha sostenuto a viso aperto posizioni che si distinguevano da quelle prevalenti nella gerarchia cattolica, negli ultimi anni soprattutto sul terreno spinoso della bioetica. Posizioni che non nascevano da una scelta arbitraria, ma proprio da quel duplice ascolto di cui ho detto. La sua era la preoccupazione di far emergere la buona notizia cristiana dall'interno delle situazioni, diversamente da un'impostazione deduttivistica che spesso tende a prevalere nella pastorale e nel magistero di oggi.
Non a caso, tra gli interventi di questa settimana, ci sono state due interviste a Camillo Ruini che non ha nascosto la diversità di accenti tra lui e Martini. Con garbo, ma anche con chiarezza. Si tratta di due anime della Chiesa italiana. Qui mi soffermo, perché sono in gioco alcuni passaggi delicati degli ultimi anni. Penso a due risposte di Ruini sulle quali vorrei attirare l'attenzione.
Su temi etici come fecondazione artificiale e unioni omosessuali, Martini sembrava più aperto alle ragioni di certa cultura laica. Avete avuto un dialogo, o magari uno scontro?
Abbiamo avuto all’interno del Consiglio permanente della Cei un dialogo amichevole e a più voci, mai uno scontro. Non sono mai emerse del resto divergenze profonde.
Negli ultimi anni però il cardinale Martini ha espresso pubblicamente posizioni chiaramente lontane dalle sue e da quelle della Cei.
Non lo nego, come non nascondo che resto intimamente convinto della fondatezza della posizioni della Cei, che sono anche quelle del magistero pontificio e hanno una profonda radice antropologica.
Ruini, con la sua intelligenza, non nega il valore e l'autenticità cristiana di Martini. Allo stesso tempo, ribadisce gli orientamenti che, con il suo contributo determinante, sono stati assunti dalla maggior parte dell'episcopato italiano. Leggendo le sue parole, però, si può rilevare il riconoscimento che Martini non ha negato i valori non negoziabili, ma ha espresso una differenza sulla loro concreta applicazione, la quale è ben altra cosa. Non era sull'essenziale che Martini si distingueva, ma sulle situazioni concrete - che riguardano sempre persone in carne e ossa -, con le loro complessità e sfaccettature. Se sono possibili letture diverse della realtà, allora, queste non vanno ignorate, ma messe a confronto.
Come ha sottolineato Gianfranco Ravasi, nella Chiesa una molteplicità di approcci è una ricchezza. Forse, lo sguardo di Martini era profetico e vedeva avanti. Io ritengo che sia così. In ogni caso, è necessario che questa molteplicità si traduca in un dialogo aperto e franco, oggi ancora carente.
La ringrazio per questo suo scritto che condivido interamente.
Giovanni Panettiere (giornalista)
Scritto da: Giovanni Panettiere | 07/09/12 a 19:26