Ho letto con attenzione il libro che raccoglie i dialoghi tra l'arcivescovo di Milano Angelo Scola e il giornalista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo (La vita buona, Mondadori).
Scola è pastore di una delle più importanti diocesi cattoliche ed è considerato uno dei maggiori candidati alla successione di Benedetto XVI. Il volume è un po' una sintesi della sua concezione del rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo contemporaneo; vale perciò una lettura attenta da parte di credenti e no.
L'espressione "vita buona", che fin dal titolo funge da filo conduttore, è suggestiva e indica un'esistenza animata dall'amore per il vero, il bello e il buono. Può essere una modalità efficace di presentare oggi il cristianesimo, con una terminologia non ingessata nel gergo ecclesiale, non come insieme di precetti e divieti, ma come via alla pienezza dell'esistenza umana indicata da Gesù Cristo.
Il successo della formula si rileva anche dal fatto che è entrata nel titolo degli orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il decennio in corso (Educare alla vita buona del Vangelo). Faccio una breve annotazione. Già dieci anni fa Enzo Bianchi aveva parlato di vita cristiana come vita bella, buona e felice (cfr. Cristiani nella società, Rizzoli 2003, pp. 181-195). Ne è derivata la sua riflessione più recente sulle "vie di umanizzazione". Lo ricordo a beneficio di chi, su questi temi, ha attaccato anche violentemente il priore di Bose, senza accordargli l'attenzione e la simpatia che magari riserva al cardinale.
Tornando al libro di Scola, comincio dal passaggio su cui mi trovo più in sintonia.
Provo a fare mia l'ipotesi di Habermas: la democrazia costituzionale moderna si costruisce da sé e non ha bisogno di presupposti etici e religiosi; allora, affinché questa struttura dialogica di società civile possa sussistere, io devo starci dentro accettando che la mia identità sia sempre in relazione alle identità altrui. Io credo nella verità, ma voglio stare in relazione con chi non ci crede e non per questo è mio nemico. Anzi, voglio imparare anche da lui. Non pretendo di imporre la mia visione della realtà, secondo cui Gesù Cristo è verità vivente e personale; ma intendo, con questa precisa visione, entrare pacificamente nell'agone con quelle altrui. Sono convinto che esista la verità, ma non la voglio imporre; la voglio rischiare attraverso la testimonianza. Non posso rinunciare a mettere in campo la mia idea nel gioco democratico. Lo impoverirei (pp. 33-34).
Qui c'è un'idea di rispetto e dialogo che trovo profondamente evangelica, perché corrisponde all'incontro e allo scambio tra Dio e uomo in Gesù. Il punto critico è il rapporto del cristiano (e quindi della comunità cristiana) con la verità in cui crede. E' una verità che possiede e personifica - e quindi può stabilire chi è o meno nell'errore - o è una verità verso cui tende? Non è la stessa cosa, sia a livello di principio sia a livello di conseguenze.
Secondo quanto dice Gesù ai discepoli, cioè a noi: Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità (Giovanni 16,13). La verità ci sta davanti. La vediamo, confidiamo in essa, ma non ne siamo proprietari o arbitri. Siamo alla sequela.
Ecco perché trovo problematici altri passaggi del libro, come quando dichiara la necessità che il magistero della Chiesa cattolica intervenga nel caso di un vulnus alla verità e ricorda la nota pastorale della CEI sulla regolazione legislativa delle unioni di fatto (28 marzo 2007).
Questo non implica affatto un'invasione di campo da parte della gerarchia. Il magistero dice che cosa fa parte di quel necessario e lo dice alla coscienza del credente, alla sua libertà. Il credente ne trarrà le conseguenze. Esiste certamente uno spazio per l'opinabile, ma per un cattolico non tutto si può ridurre a opinabile. I vescovi italiani, proponendo la famosa Nota, non hanno fatto altro che il loro dovere. Del resto non mi risulta che vadano in Parlamento a votare (pp. 65-66).
Il problema che si pone è quale sia lo spazio dell'opinabile e chi lo delimita. Come dice Scola, in Parlamento i non votano i vescovi e chi si trova in Parlamento, o in altre sedi pubbliche, agisce in libertà secondo coscienza. Quindi, di fatto la laicità dello Stato non ne viene minacciata.
L'aspetto ambiguo è interno alla comunità dei credenti: fin dove si spinge il diritto-dovere dei vescovi di dare delle indicazioni, e quindi di legittimare o meno il comportamento di un cattolico in politico? Che cosa fa parte del necessario: i principi o le singole norme? In questo secondo caso, i vescovi indicano ai credenti quali sono le leggi da accettare o respingere, come se possedessero il progetto ideale di società e conoscessero i mezzi per realizzarlo. Un intervento del genere dovrebbe avvenire solo in casi eccezionali, come quello di una dittatura dove non c'è libertà di parola e che va a intaccare i diritti umani fondamentali.
Se, però, diciamo che la verità ci sta davanti, il raggiungerla diventa questione di una ricerca condivisa tra tutti i credenti, anche con chi non crede o crede diversamente da me. La gerarchia ha un ruolo di guida pastorale nella fede, ruolo che non è però assoluto in tutti i campi della vita umana e cristiana, dove anzi può scoprire che impara da altri. E' la concezione dialogica della verità, che ritroviamo per esempio nel dialogo tra Carlo Maria Martini e Ignazio Marino.
La vita buona non è l'insegnamento di qualcuno di noi a tutti gli altri, ma è qualcosa che cerchiamo tutti insieme e che i cristiani colgono e testimoniano seguendo Gesù.