Nichi Vendola, tra i leader della sinistra italiana, al momento è forse l'unico che sia identificato come portatore di una visione, piuttosto che come esponente di un partito. Questo è uno principali motivi della sua attrattiva. Una componente di rilievo della visione di Vendola è il riferimento alla fede. Il politico pugliese rivendica la sua doppia identità comunista e cattolica ed elabora una declinazione pubblica del dato religioso alternativa a quella oggi prevalente in Italia.
Il modello di cattolicesimo politico del centrodestra si è imposto anche per l'avvallo ricevuto da Camillo Ruini durante la sua presidenza della CEI; esso si impernia su alcuni "valori non negoziabili" (vita, scuola, famiglia), interpretati in un certo modo e senza possibili mediazioni con interpretazioni alternative. In questo modo, la Chiesa istituzionale si presenta sulla scena pubblica come garante dei principi antropologici fondamentali e trova nel proprio partner politico il soggetto che ne garantisce l'applicazione.
E' un modello che ha avuto successo e il cui limite è quello di ridurre il Vangelo a un'etica e a un programma politico creando un legame troppo stretto tra religione e potere.
Il centro sinistra non ha saputo elaborare un modello alternativo e trovo che sia uno dei limiti del PD che pure ha avuto nell'area del cattolicesimo democratico uno dei suoi affluenti più importanti. Forse c'era uno spunto in tal senso nella rivendicazione di Romano Prodi di essere un "cattolico adulto" ai tempi della polemica sui Dico, ma è una strada che non è stata esplorata.
Vendola, invece, non elude il problema. La sua posizione è analizzata in un articolo di Alessandro Santagata pubblicato su Adista:
In occasione del I Congresso nazionale di Sel (Sinistra ecologia e libertà), nell’ottobre del 2010, Vendola affronta in questi termini la questione del rapporto con il mondo cattolico: «Questo tema su cui siamo continuamente sollecitati ha dentro di sé la consumazione di una storia, quella dell’unità politica dei cattolici. La fine di tale unità ha provocato un’inseminazione generalizzata di clericalismo nella scena politica. Guai se rispondessimo a questo con vecchie pulsioni anticlericali, rinunciando alla sfida del dialogo».
Già da queste poche battute è evidente come Vendola rifiuti l’etichetta di politico cattolico (e quindi moderato) riproponendo piuttosto, secondo un'antica consuetudine comunista, il confronto culturale con il mondo cattolico, mentre, allo stesso tempo, avanza una concezione della fede intesa come componente di una sua “diversità” che il portavoce di Sel non nasconde, ma rilancia nella sfida per la riscrittura del vocabolario della sinistra: «Ciò che è scritto in quelle pagine che noi fedeli consideriamo sacre è stata una stella polare non solo della mia spiritualità, ma anche della mia formazione civile. Si tratta di non usare l’aspersorio, l’acquasantiera come argomento elettorale. Ma sono convinto che quella profezia, essendo anche una grande sfida culturale, è importante che si diffonda nella vita pubblica».
Se le Scritture, con una particolare predilezione per il versante veterotestamentario sono la fonte principale del discorso religioso di Vendola l’influenza della lezione del Vaticano II è evidente.
Filtrato dai genitori, dalla frequentazione della parrocchia a Terlizzi e soprattutto dal legame con mons. Tonino Bello, quello vendoliano è un cristianesimo squisitamente conciliare che scruta il mondo alla ricerca dei “segni dei tempi” per riscoprirvi la fede e per adattare il messaggio ai cambiamenti epocali.
È dunque un cristianesimo figlio della Costituzione pastorale Gaudium et spes che ha messo la parola fine, almeno da un punto di vista teorico, alle compromissioni della Chiesa con il potere riaffermando il valore della testimonianza evangelica nella vita pubblica. Infine, è anche un cristianesimo post-conciliare che ha vissuto la stagione del dissenso con la gerarchia, della contaminazione marxista e l’influsso delle teologie della liberazione. Con questo mondo Vendola è entrato in contatto fin da giovanissimo, proprio quando con l’avvio del pontificato di Giovanni Paolo II esso cominciava lentamente a declinare.
Il profondo legame con don Tonino Bello, «una voce che ascendeva dal Salento dritta all’eternità», ha trasformato la devozione in domanda, in dono, in una religiosità inquieta e complessa che lo porterà assieme al suo vescovo in una Sarajevo devastata dalle bombe. Sulla scorta del messaggio di pace di don Tonino Bello, Vendola abbraccerà poi completamente le ragioni della nonviolenza, celebrate con Fausto Bertinotti al Congresso di Venezia di Rifondazione Comunista (2008) e quello spirito di accoglienza verso i migranti, allegoricamente identificato nel santo patrono Nicola, anche lui “extracomunitario”.
Santagata ricorda anche i rapporti di Vendola con alcuni preti che tracuno la fede in impegno civile, come Luigi Ciotti e Marco Bisceglia, e che si inquadrano in un approccio al cattolicesimo anti-dogmatico e anti-giuridico in cui l'omosessualità ha un posto importante:
«Io vorrei sfidare la Chiesa. Vorrei capire in cosa consiste il peccato quando si è nei dintorni dell’amore. Perché una coppia regolarmente sposata in cui vige la violenza e l’ipocrisia va bene, mentre una coppia gay dove c’è un patto di amore straordinario e un vincolo di fedeltà ha a che fare con le fiamme dell’inferno? Io penso che Dio sia la Libertà e che il dono di Dio sia fondamentalmente un dono di libertà». Il conflitto diviene anche apertamente politico in occasione dell’apertura del dibattito legislativo per il riconoscimento delle unioni omossessuali nel 2003. All’allora prefetto Joseph Ratzinger e alla Cei Vendola contesta con queste parole l’ingerenza della Chiesa nel diritto dello Stato: «La posizione incarnata dai vertici della Cei fa male alla Chiesa, esponendo il magistero su un terreno improprio. Non si vede molto la Chiesa universale indicata dalla profezia cristiana, ma quella romana che interferisce nella legislazione nazionale, pesantemente».
Troviamo qui una contestazione della conformità al Vangelo di alcune posizioni in tema di morale sessuale e dell'intervento diretto della gerarchia cattolica sulla scena politico-legislativa in nome di una distinzione dei piani.
La posizione di Vendola trae ispirazioni da radici che sento anche mie. Mi pongo, però, alcuni interrogativi sulla sua praticabilità dentro un progetto politico che vuole avere portata nazionale.
1) Nell'area di riferimento di Vendola è presente una componente non solo anticlericale (di per sé, l'avversione al clericalismo dovrebbe essere un valore anche per un credente), ma anche di avversione nei confronti del fatto religioso e ancora di più della realtà istituzionale della religione, particolarmente importante nel cattolicesimo. Sarà possibile realizzare davvero quel dialogo che lui auspica, non solo impegnando la sua persona, ma a un livello collettivo?
2) Quando si cerca di realizzare un'operazione del genere, non è sufficiente mettere in campo alcune suggestioni e alcuni richiami dal forte impatto simbolico (come Giovanni XXIII, don Milani, Tonino Bello...), c'è bisogno dell'elaborazione condivisa di un pensiero, di una cultura, anche di una teologia in questo caso. C'è bisogno di partner, interlocutori, teorici di riferimento, alleati... Lo ha fatto il centro destra in Italia con Cl e con figure come Fisichella o Baget Bozzo. Lo ha fatto Obama con l'area del cristianesimo sociale, la quale era stata scavalcata dal cristianesimo conservatore durante l'era Bush. Chi possono essere questi interlocutori per Vendola?
3) Se Vendola un domani sarà un candidato alla guida politica del Paese, inevitabilmente il suo programma andrà a toccare alcuni "temi sensibili" e si innescheranno dei conflitti nei quali sarà coinvolta la sfera religiosa. In che misura è disposto a praticare la strada del dialogo e della ricerca di un ragionevole punto di comprensione reciproca, piuttosto che quella della contrapposizione, secondo lo stile praticato in questi anni dal centro destra?
Hai fatto una analisi davvero lucida. La approvo anche nelle criticità espresse e nei timori lasciati sotto traccia. Sperare per tutti è credere per tutti; è prima di tutto un ideale ritorno sotto la tenda di Abramo e riconoscerci alla stessa mensa. E' tempo in cui bisogna praticare l'eresia intesa come ricerca dell'ombra della tenda di Abramo. Abbiamo bisogno di toni pacati e riflessioni interiori, di orti chiusi dove conservare ogni seme di diversità per farne esercizio collettivo nella informazione non urlata e nella coerenza agita. Continua così, è un piacere leggerti.
Scritto da: Alessandro | 03/02/11 a 07:13