Entusiasmo, sogni, attese su scala mondiale… Questo è stato l’evento Obama. Che cosa c’è dietro? Sicuramente una forte voglia di cambiamento dopo gli 8 anni di presidenza Bush. Ma così non si spiega il movimento popolare che si è mobilitato negli Stati Uniti e il grande favore dell’opinione pubblica planetaria.
Il dato socio-culturale è innegabile. Il figlio di un africano a capo della più grande nazione occidentale. Quella che per ultima ha abolito la schiavitù e ha vissuto il movimento per i diritti civili pagando elevati costi umani. Basta per fare la storia.
C’è però anche un dato politico nuovo a cui pure l’Italia può guardare.
Barack Obama è il primo leader veramente post-ideologico a cui sembra non si possano applicare le etichette delle appartenenze politiche tradizionali. Come se segnasse l’approdo del faticoso cammino della democrazia nel ‘900, il quale può essere letto come un succedersi di conflitti attorno ad alcune linee di frattura. Per decenni in primo piano c’è stata la lotta di classe, innescata dalla questione operaia. A partire da Ronald Reagan e Margaret Tatcher si è aperto un altro fronte più strettamente economico che riguardava la prevalenza dello Stato (e del suo sistema di protezione sociale) o del mercato. È una sintesi semplicistica, per ragioni di brevità, ma che ha un suo fondamento. Non è un caso che la chiusura della presidenza Bush coincida con l’implosione del neoliberismo.
Obama non si è schierato su questi vecchi fronti e non ha puntato ad aprire nuove fratture. Anzi – e qui sta la novità politica – ha puntato sulla ricomposizione delle fratture, a partire da quella razziale che segna profondamente la storia USA e di cui la sua pelle può essere considerata un’icona.
Nel messaggio obamiano ci sono gli slogan («Yes we can»), c’è la vaghezza delle suggestioni (speranza, cambiamento, novità…), ma c’è anche un messaggio preciso che risuona in molti suoi interventi e nelle parole del 4 novembre, subito dopo la vittoria. Lo si coglie con particolare nitidezza nel discorso del 18 marzo 2008, a Philadelphia, da molti ritenuto il suo capolavoro. In Italia è stato pubblicato in un volumetto (Barack Obama, Sulla razza, Rizzoli).
Da parte di Obama non c’è una negazione delle tensioni razziali. Le ammette, ma senza cadere nella contrapposizione neri contro bianchi. È consapevole delle ingiustizie subite dalla sua gente, ma cerca anche di comprendere le ragioni della rabbia che oppone i gruppi etnici. Il vero problema per lui non è la razza, ma il malessere delle persone che trova nel razzismo lo sfogo più immediato. È il bisogno di trovare un nemico, un colpevole a cui imputare le proprie paure e i propri problemi. Un bisogno viscerale che la politica, anche in Italia, spesso cavalca irresponsabilmente.
Più che lottare contro un nemico, sostiene Obama, è meglio lavorare insieme per cambiare la società, guardando al futuro e non al passato: «Potremo vincere le sfide del nostro tempo solo se comprenderemo che abbiamo origini diverse ma le stesse speranze».
Pensare la convivenza sociale come una competizione in cui una parte deve vincere e un’altra deve perdere non porta niente di buono.
«Tutti gli americani – scrive – devono rendersi conto che i sogni di qualcuno non devono realizzarsi a scapito di quelli di qualcun altro; che investire nella sanità, nel welfare e nell’istruzione dei bambini, siano essi neri, meticci o bianchi, alla fine si rivelerà vantaggioso per tutti. In sostanza siamo chiamati semplicemente a rispettare un comandamento che esiste in tutte le grandi religioni del mondo: fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Come dicono le Sacre Scritture, prendiamoci cura dei nostri fratelli. Prendiamoci cura delle nostre sorelle. Cerchiamo di trovare quell’interesse comune che tutti abbiamo gli uni verso gli altri, e fondiamo la nostra politica su questo insegnamento».
Riallacciandosi a una radice religiosa, Obama non contrappone l’interesse degli uni a quello degli altri. Senza fare appello ai buoni sentimenti, ma individuando un’idea forte: l’interesse comune. In altre parole, il bene comune che è anche parte importante della tradizione cristiana. Qui c’è una rottura rispetto alla cultura dell’individualismo e dell’utilitarismo finora prevalente. Certo, in questo messaggio ci può anche essere una dose di calcolo e di opportunismo. Certo, dopo l’emozione elettorale il nuovo presidente è ora atteso alla prova dei fatti. Ciò non toglie che egli abbia evidenziato quella che può essere una questione chiave per la politica del XXI secolo in una società sempre meno omogenea e in cui le diversità sono sempre di più destinate a convivere.
Dopo la globalizzazione, la politica ha davanti a sé due vie. Da una parte la via del conflitto quando ogni identità, ogni appartenenza, tenta di prevalere sulle altre; dall’altra parte la via dell’interesse comune. Si deve scegliere. E Obama ha vinto le elezioni scegliendo la seconda via, che è la sola veramente razionale, veramente umana e – per chi ci crede – veramente cristiana. Ora si vedrà se questo annuncio si tradurrà in decisioni di governo, ma, dopo anni trascorsi all’ombra dello scontro di civiltà, si vede almeno una direzione nuova. Il nuovo presidente ha calamitato vasti consensi perché è risultato credibile come esponente di questa idea: la sua identità di meticcio e il suo percorso biografico che lo ha fatto vivere in più nazioni, per approdare al lavoro sociale nei quartieri poveri di Chicago, suggeriscono che Obama sappia in prima persona che cosa vuol dire valicare i confini tra le diversità e costruire ponti che li uniscano. Laureato in scienze politiche alla Columbia University e in giurisprudenza ad Harvard, docente di diritto costituzionale, ha gli strumenti per contribuire alla elaborazione di un pensiero nuovo, di una visione della politica e della società di cui il nostro tempo ha bisogno per superare le ideologie del passato.