Per rifiatare dopo i recenti post, molto "politici" e molto "papalini", vorrei segnalare una iniziativa organizzata dal Centro di spiritualità della diocesi di Crema di cui sono venuto a conoscenza ieri, perché mi sembra che possa offrire degli spunti sul modo di essere Chiesa e di fare pastorale.
Si tratta di una serie di incontri con don Angelo Casati, sacerdote milanese che è stato fino allo scorso luglio parroco nella comunità di San Giovanni in Laterano. Non lo conosco personalmente, ma ho avuto modo di ascoltare molte testimonianze lusinghiere sulla sua umanità, sulla sua apertura e capacità di dialogo. I suoi scritti che mi è capitato di leggere mi hanno colpito per la semplicità, da non confondere con la banalità, e il "sapore" che contengono. So che è un'espressione non chiara, ma intendo dire che sono parole da cui ho ricavato un'impressione di radicamento nel vissuto, di limpidezza, e non di sfoggio di retorica, tantomeno di indottrinamento a poco prezzo.
Il titolo di questo percorso è: Parola e parole sulle strede della vita. Là dove camminiamo insieme e insieme ci interroghiamo.
Riporto il calendario perché mi ha colpito:
- Giustizia e umanità, 22 ottobre 2008.
- Libertà e leggerezza, 26 novembre 2008.
- Gratuità e gratitudine, 14 gennaio 2009.
- Semplicità e quotidianità, 18 febbraio 2009.
- Amicizia e affidabilità, 25 marzo 2009.
- Silenzio e ascolto, 29 aprile 2009.
Sono parole che parlano di vita, non di catechesi intellettualistiche o dottrinarie. La vita che accomuna tutti, credenti e no. Parole sulle quali la fede può esprimersi come arte del vivere. Non come discorso pronunciato da una cattedra, ma come voce della stessa ricerca che tutti conduciamo, perché tutti siamo alle prese con le avventure dell'esistenza, con le sue contraddizioni e inquietudini.
Forse, nella società pluralista di oggi, la strada migliore per il Vangelo è partecipare a un "conversare insieme", senza maestri, ma in cui si condivide la fatica e le scoperte del quotidiano. Il Vangelo, allora, si rivela credibile non perché è portatore di una logica o di un sapere superiori, Non perché si impone. Ma perché le persone lo sentono liberamente parlare alla propria vita.
Riporto, da un suo testo, alcune sue riflessioni sullo scetticismo verso una chiesa che conta su appoggi legislativi favorevoli, piuttosto che sulla fiducia nella Parola:
Saremo ingenui agli occhi di tanti, ma noi confidiamo nella forza disarmata di Dio, di Gesù, del suo vangelo: "Benedetto l'uomo che confida nel Signore".
E confidiamo nello stile di Gesù, uno stile che i preti minori si sono sentiti ancora una volta ricordare da un vangelo della quaresima ambrosiana, quello di Gesù al pozzo di Sicar. Non ci spetterebbe forse questo come gerarchie e come preti, anche, a proposito di amore, di matrimoni, di famiglie e di convivenze, non ci spetterebbe di sconfinare, come Gesù ha sconfinato? Prese quel giorno non la strada dritta, la tradizionale, per recarsi in Galilea. Deviò, sconfinò in terra di gente che nel giudizio del suo popolo aveva fama di razza religiosamente bastarda, popolo stupido agli occhi dei puri. E non dovremmo sconfinare anche noi, e anziché parlare dalle cattedre, sedere al pozzo nell'ora più calda del giorno?
C'è da rimanere ancora oggi illuminati e riscaldati, se crediamo più al vangelo che alle nostre strategie, illuminati e riscaldati dal fascino di quell'incontro tra Gesù e la donna al pozzo di Sicar. E il sole splendeva alto. Illuminati e riscaldati da un incontro dove traspira da ogni riga la tenerezza di un amore più forte di ogni pregiudizio. E la donna li conosceva, li aveva portati sulla sua pelle i pregiudizi, i pregiudizi sul suo popolo ritenuto bastardo, i pregiudizi sul suo essere donna. Forse si accorse, fino a sentire pesantezza, dello sguardo indagatore dei discepoli che si meravigliavano che il loro rabbì stesse parlando con una donna. Li aveva sentiti fin sulla pelle i pregiudizi sulla sua femminilità guardata con sospetto, lei donna dei cinque mariti.
E sarebbe dovuto fermarsi molto ma molto prima di arrivare al pozzo, molto ma molto prima di arrivare a lei, quel rabbì, se avesse ascoltato i giudizi, le malignità, le tradizioni. Ma lui sovvertiva giudizi, malignità e tradizioni. La donna sentiva quello sguardo, il suo. Lei ne aveva sentiti tanti di sguardi, spudorati e spietati. Il suo no, era uno sguardo che aveva un calore, ma dolce, non invadente, come un tepore di sole. E lei fioriva, lei che tutti giudicavano ramo secco, lei a quel tepore di sole si apriva, come fanno i rami degli alberi in questo preludio di primavera. Il nostro mandorlo fiorito in questo inizio di marzo, accanto alla mensa dell'altare, sembra quasi simbolo tenero, icona, della donna samaritana. Che cosa l'ha fatto fiorire? Forse il gelo dell'inverno?
Sarà opinione di un prete minore, ma ti dirò che oggi, quando mi guardo attorno e mi capita di riflettere su ciò che vado osservando, mi viene spontaneo pensare che siamo lontani, lontanissimi dall'aver imparato la lezione del pozzo di Sicar. Ma pensate che si possa far fiorire persone o situazioni con il nostro gelo, con i nostri occhi spietati, con l'accecamento dei nostri pregiudizi, con l'inverno delle nostre separatezze? Ma ci ricordiamo ancora di Gesù? Di questo Gesù che passa i confini, il confine tra ortodossi e non ortodossi, il confine tra puro e impuro, il confine tra un monte dell'adorazione e un altro monte antagonista? Abbiamo imparato qualcosa dal vangelo o siamo ancora a meravigliarci, come i discepoli, che lui stia a parlare con una donna? E per giunta con una donna come quella!
Quale chiesa, secondo voi, può far pulsare un fiotto di vita nelle vene di questa umanità? Forse i volti segnati da durezze, da separatezze, da condanne? Avete trovato ombra, una che è una, ombra di durezza, di separatezza, di condanna, ne avete trovata una, una sola, nel colloquio presso il pozzo? E chi lo avrà raccontato, quell'incontro, chi se non lui o la donna?
A far pulsare un fiotto di vita nelle vene di questa umanità non sarà invece la chiesa che siede al pozzo, una chiesa mai stanca dell'umanità, mai stanca della compagnia degli uomini e delle donne del nostro tempo, una chiesa che parla sottovoce, come il rabbì alla donna del pozzo, una chiesa che sa chiedere un po' d'acqua confessando il suo bisogno, una chiesa che parla delle cose della vita, una chiesa che non invade le coscienze, che fa emergere pazientemente le attese del cuore, scavando nel bene, nel bene che rimane, rimane comunque in ogni cuore, una chiesa che non ha nel suo stile quello di far sentire un verme nessuno, ha invece la passione di portare alla luce la vena preziosa nascosta in ogni cuore senza distinzione? È questo, me lo chiedo, lo stile che ci contraddistingue nella vita? Con che volto accostiamo l'altro, con che occhi lo guardiamo? Ci abita, dentro, lo sguardo del rabbì del pozzo per la donna samaritana? E sappiamo sognare, come faceva lui, il maestro davanti ai piccoli germogli? O ci interessa solo il cibo, la nostra voracità di cose, di persone, di potere? "Maestro mangia!": gli dicevano i discepoli di ritorno dalla città in cui erano recati a far provviste di cibo. Ma lui si era già sfamato. Dissetato lui e la donna a quell'incontro, un incontro che in ognuno aveva lasciato qualcosa. In lei, nella donna, la percezione, incancellabile, di aver trovato finalmente qualcuno che le aveva letto nel più profondo del cuore e le aveva rivolto parole che erano acqua zampillante, e in lui, Gesù, la percezione che i campi, induriti per crosta di gelo e di inverno, già si aprissero, fuori stagione, alla fioritura. Era fiorita la donna. "Levate i vostri occhi" diceva "e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura."