Il tema del rapporto tra etica e religione nella vita pubblica viene toccato di frequente in questo blog ed è ricorrente sui mezzi di comunicazione.
Coloro che criticano determinate prese di posizione del magistero cattolico, soprattutto in tema di bioetica, vengono accusati dai loro detrattori di essere incoerenti. Applaudono il papa - si dice - quando si pronuncia per l'accoglienza degli immigrati, contro la guerra e la povertà, per la tutela dell'ambiente, ma lo contestano sull'etica sessuale, sulla tutela della vita e della famiglia. Ciò viene imputato il fatto di avere posizioni politicizzate e ideologizzate, influenzate dalle forze di sinistra. La loro fede e l'adesione alla Chiesa, pertanto, sarebbero subordinate ad altre posizioni estranee al cristianesimo riconducibili ad un individualismo radicale (in riferimento alle questioni di bioetica) oppure a un massimalismo di matrice comunista (in riferimento alle questioni politico-economiche). Sarebbero insomma dei credenti quanto meno ingenui o addirittura in mala fede.
C'è anche una precisa terminologia con cui il credente critico viene denominato attribuendogli una connotazione negativa: dossettiani, cattocomunisti, progressisti, luterani... Sarebbero loro ad aver monopolizzato il concilio e il post-concilio deviando la Chiesa dal retto cammino della tradizione, portandola a cedimenti nei confronti del mondo e della cultura moderna. E sarebbe la loro influenza ad aver favorito la secolarizzazione, con l'ecumenismo, la riforma liturgica, l'allontanamento dalle posizione etiche di sempre, l'indebolimento dell'obbedienza gerarchica... Etichettare qualcuno è il miglior modo per svalutarlo e delegittimarlo.
Secondo me, invece, chi avanza perplessità su alcune prese di posizione magisteriali, esprime invece un'altra istanza che ha ben altra levatura rispetto a queste rappresentazioni caricaturali e denigratorie.
Il punto è che i pronunciamenti della Chiesa hanno sicuramente un valore educativo e di richiamo nel dibattito pubblico. Non ha senso volere una Chiesa del silenzio. Un conto, però, è segnalare alla politica e alla società alcuni principi che vanno nel senso della difesa della persona e della vita (conformemente alla dignità della persona umana e dell'amore del Padre per i propri figli raccontati dalla Bibbia). Un altro conto è l'intervento sistematico e pressante sui procedimenti legislativi, sulle scelte politiche e su situazioni particolari che diventano (non solo a causa della Chiesa) bandiere e trincee per battaglie di principio (v. i casi di Welby ed Eluana Englaro).
In questo modo, la gerarchia cattolica si pone come un'autorità che preme per affermarsi nella società e per esercitare un potere e toglie ai singoli credenti che nella società vivono la responsabilità di incarnare la propria fede nel confronto con posizioni diverse e trovando le opportune mediazioni, senza con ciò sminuire o annacquare la fede stessa.
La mia proposta (che non pretende di essere particolarmente originale, ma tenta di circoscrivere un principio), insomma, va nella direzione di distinguere le "competenze" di gerarchia e fedeli nel loro agire sociale. Senza però creare una divisione netta e a compartimenti stagni. Ci vuole anche una circolarità di confronto e scambio per favorire da parte di tutti la riflessione e il discernimento. In una società complessa, è difficile trovare spazio per soluzioni onnicomprensive e stabilite a priori. Certo, i vescovi dovrebbero intervenire direttamente nell'arena politica solo per esercitare una funzione di supplenza in mancanza di vere alternative (v. il caso di Lugo in Paraguay). A mio parere, in Italia, di questa supplenza, con la scusa della fine del partito unico dei cattolici, si è ampiamente abusato.
Questa mia posizione non intende essere una sovversione del cattolicesimo e della sua tradizione. Io la vedo come una più profonda attuazione del messaggio evangelico nel nostro tempo, perché favorisce una autentica corresponsabilità (la quale è un frutto della comunione che dovrebbe caratterizzare la Chiesa). Inoltre, essa responsabilizza tutti i credenti a essere sale della terra e luce del mondo, rendendo ragione della propria speranza, ma "con dolcezza e rispetto" come raccomanda la prima lettera di Pietro.
Mi piacerebbe molto leggere un commento a questa tua riflessione fatto da qualcuno che la pensa diversamente, non per creare rissa, ma per capire meglio cosa impedisce alla gerarchia di lasciare un pò di competenze ai fedeli laici, e in definitiva al giudizio della coscienza personale.
Scritto da: Mauro | 18/07/08 a 14:49
Credo che al fondo di certe scelte ci sia il terrore da parte di alcuni di riconoscersi come "pusillux grex". Non si spiegano diversamente le insistenze da parte di Ruini (tanto per fare un esempio) quando era presidente della Cei sul fatto che la Chiesa italiana fosse ancora una "Chiesa di popolo". Certe insistenze sulle tematiche etiche permettono infatti di arruolare sotto le proprie bandiere anche chi normalmente sarebbe schierato su diversi schieramenti. Però fanno numero (e anche opinione) e questo ad alcuni sembra bastare.
Scritto da: donMo | 18/07/08 a 16:10