Anche se non fanno audience, ci sono fatti e persone che meritano di essere ricordati.
È il caso del giornalista Paolo Giuntella, quirinalista del TG1, morto da alcuni giorni, uomo di fede profonda e di onesto impegno civile sia nella professione sia nella vita privata.
Il quotidiano Europa ha pubblicato un suo intervento che avrebbe dovuto tenere a un convegno al monastero di Camaldoli. Le sue parole sono tanto più significative se si tiene conto che vengono da un uomo malato di tumore, esperienza che si riflette in quanto dice, le cui posizioni ecclesiali e politiche sono perciò profondamente meditate e sentite, indipendentemente da mode intellettuali e condizionamenti ideologici.
Come quando dice:
credo sia urgente ricollegare tutte le amicizie spirituali, tutte le energie, per lottare con tenerezza ma tenacia dentro la Chiesa perché non si chiuda alla riforma incessante evangelica e al mondo esterno.
Colgono nel segno, a mio avviso, le sue considerazioni sulla comunicazione politica in Italia. Parole di un uomo con la schiena dritta.
I media, soprattutto la tv ma anche i giornali, hanno forse preceduto la spettacolarizzazione e dunque la banalizzazione del linguaggio della politica, senza incidere sulla possibilità di raccontare meglio quello che effettivamente accade, perché hanno preferito la strada dell’audience e delle vendite con gossip, ricerca di battute brillanti ma spesso piene di nulla o copertura populista degli interessi costituiti. Questo è accaduto e accade in tutti i paesi del mondo occidentale e anche in non pochi paesi del secondo e del terzo mondo. Anche a causa dell’impoverimento della classe politica. È sotto gli occhi di tutti quante leadership mondiali abbiano curricula ridicoli. Frutto dei costi, anche stellari, della politica e della necessità di comunicazione mediatica a bassa qualità, immediata, per conquistare consensi solleticando la pancia piuttosto che l’intelligenza degli elettori. I politici, e soprattutto i primi protagonisti della vera ondata dell’“antipolitica”, a mio giudizio Lega Nord e Forza Italia, hanno subito intuito la potenza del linguaggio brutale, sloganistico, di propaganda e provocazione, di quello che io chiamo il linguaggio preteristituzionale, cioè che prescinde completamente da qualsiasi riferimento alle istituzioni, allo stato, al bene comune o all’interesse collettivo. La cultura istituzionale, la cultura delle regole, la cultura della legalità , è sempre più assente – anche per progressiva crassa ignoranza – dal linguaggio delle tante corporazioni italiane, di tanti settori (forse maggioritari) della società civile, che non è affatto migliore della società politica, anzi. La società politica in Italia è l’espressione di questi impulsi primordiali e quasi dominanti, di questo linguaggio semplificato, banalizzato, lontano da ogni consapevolezza non dico della complessità ma almeno della interdipendenza degli stessi interessi costituiti.
In un commento al mio post precedente leggo:
È una domanda importante.
No, non credo che serva spiegare il Vangelo a questa gente. Anche perché il Vangelo non lo si spiega, lo si vive, lo si testimonia.
Il terreno che alimenta questa cultura della violenza è anche quello del nostro retaggio di cristianità in cui a una appartenenza religiosa sociologica non sempre corrisponde un vissuto di fede. È anche il senso di ciò che si coglie da una lettera ai vescovi italiani scritta da Luigi Bettazzi e che viene pubblicata sul numero di maggio di Mosaico di Pace:
Non si possono “spiegare” le Beatitudini agli estremisti e ai violenti. Ma si può mostrare con la vita che costituiscono il modo migliore e più giusto di gestire le relazioni sociali e personali. È questa la vera preoccupazione di noi cristiani e delle nostre comunità, o piuttosto di cercare rilevanza sociale e ossequi politici al papa?