Mi sto confrontando in questo momento, non solo per interesse ma anche per la mia ricerca personale, con un testo della filosofa Hannah Arendt (1906-1975), una delle pensatrici più acute del Novecento, soprattutto sui temi del male, del totalitarismo e della coscienza umana: Alcune questioni di filosofia morale (Einaudi). Il testo è la trascrizione di una serie di lezioni tenute a New York e a Chicago tra il 1965 e il 1966. In pochi capitoli, succinti e taglienti, vengono messe a fuoco alcune questioni fondamentali per la vita individuale e collettiva.
Sono rimasto molto colpito da un passaggio, che fa riferimento ai totalitarismi e allo sterminio degli ebrei, il quale inquadra il tono del suo discorso:
Tra le tante cose che all’inizio del secolo sembravano permanenti e vitali e che di lì a poco sarebbero invece crollate, ho scelto di focalizzare la mia attenzione sulle questioni morali, quelle che concernono la condotta e il comportamento dell’individuo: le poche norme e regole in base alle quali gli uomini distinguono il bene dal male e che vengono sempre invocate per giudicare gli altri e giustificare se stessi – regole e norme la cui validità è ritenuta evidente da chiunque sia sano di mente, facendo esse parte del diritto naturale o divino. Tutto questo, senza troppo scalpore, venne meno dal mattino alla sera. E fu allora che ci accorgemmo del significato originale, etimologico della parola morale, proveniente dal latino mores, che significa semplicemente usi o costumi – usi e costumi che si possono cambiare all’improvviso senza troppi problemi, così come si possono cambiare da un giorno all’altro le nostre abitudini a tavola. Che impressione, che brividi sulla pelle quando ci accorgemmo che le parole che avevamo adoperato fino a quel momento per designare queste realtà permanenti e vitali - «morale», di provenienza latina, ed «etica», di provenienza greca, significavano in realtà solo usi e costumi. (p. 4).
Ma questo venir meno di principi etici ritenuti per secoli universali, non è anche quello che ha segnalato in più occasioni Benedetto XVI? I lettori di questo blog sanno che, pur da cattolico convinto, non ho mai nascosto le mie perplessità su certe decisioni o certi toni utilizzati dal pontefice in alcune occasioni. Allo stesso tempo, però, non mi sento neanche in sintonia con chi lo tratta come un grande inquisitore da avversare sempre e comunque. Ne rispetto il ruolo nella Chiesa, ma non penso (come del resto sostiene la fede cattolica) che ogni suo gesto o parola sia infallibile e dettato dal cielo (altrimenti che dire di tanti papi che si sono succeduti nel corso della storia?).
Mi sorprende che la denuncia del venir meno di un’etica condivisa, da parte di qualcuno, sia accettabile se viene da una filosofa laica e non se viene da un uomo di Chiesa. So che per tanti c’è il sospetto che la Chiesa cattolica alla fine voglia arrivare per tale via a una «riconquista» della società, ma il sospetto sempre e comunque è un atteggiamento che inquina i rapporti sociali e personali. Fino a prova contraria, vale la presunzione di buona fede.
Mi sorprende anche che a quarant’anni dalle riflessioni della Arendt possiamo considerarci ancora fermi a quel punto.
Certo, le risposte della filosofa e quelle del pontefice allo stesso problema differiscono evidenziando una distanza tra visione laica e visione religiosa.
La Arendt individua la via per rispondere al problema morale nella coscienza, nella «vita della mente» (titolo della sua ultima opera): coloro che hanno resistito al nazismo, lo hanno fatto non in base a un principio etico o religioso esteriore, ma perché dentro di sé si sono detti «non posso». È nella coscienza che si forma il giudizio morale e la legge costituisce il tentativo (imperfetto e provvisorio) di dargli un’oggettività condivisa da tutti. È la coscienza la via per arrivare al bene o comunque per non arrivare al male. Per il Papa è la rivelazione, il cui senso è riconoscibile nella legge naturale accessibile alla ragione, la via per arrivare al bene.
Queste due strade non sono incompatibili, perché nella teologia cattolica si riflette sulla coscienza e il dibattito è ancora aperto. La fede non è adesione intellettuale a una dottrina, ma richiede l’assenso della coscienza personale. Il punto che la riflessione deve chiarire è il peso e il ruolo effettivo della coscienza. Ma, come ho detto, è un dibattito aperto.
io penso che la differenza sostanziale è che la Harendt riconosce questo passaggio non necessariamente come patologico o negativo, mentre il papa lo considera assolutamente negativo e da evitare accuratamente.
La Harendt ha un approccio diremmo fenomenologico (era ben l'amante di Heidegger, e comunque stupidaggini a parte una grandissima donna e pensatrice). Papa Benedetto ha più un approccio metafisico.
Boh... almeno così pare a me...
Scritto da: dMarco | 27/08/07 a 23:31