Dopo tante discussioni e attese, è stato pubblicato il Motu proprio Summorum Pontificum (il link è a una traduzione in italiano, visto che il sito Vaticano presenta solo il testo in latino), accompagnato da una lettera esplicativa del Papa che liberalizza l’uso del messale preconciliare di Pio V. Là dove esistono gruppi stabili di fedeli che desiderano la celebrazione secondo questo rito, hanno diritto a essere esauditi. La finalità del provvedimento, come da più parti sottolineato, è chiaramente pastorale per favorire la riconciliazione con i gruppi ultratradizionalisti e con gli scismatici lefevriani (perché con altre correnti di dissidenti non c’è la stessa premura?).
Alcune precisazioni sono d’obbligo. I due riti non sono perfettamente equivalenti, perché il messale di Paolo VI resta il rito ordinario della Chiesa, mentre quello preconciliare è ammesso come rito straordinario. La liberalizzazione, perciò, non permette a qualcuno di «escludere» e di ignorare il messale riformato. I tradizionalisti sono quindi tenuti ad accettare e a utilizzare anche quest’ultimo e non fanno parte di una comunità separata con un proprio rito.
Il provvedimento, però, mi sembra una soluzione di compromesso che non tocca i nodi di fondo. La questione, come spiegato in un paio di post recenti (Messa e latino 1, Messa e latino 2) non riguarda solo la lingua, ma il significato teologico e spirituale del rito. Infatti, il leader dei lefevriani ha già dichiarato che per lui il Motu proprio è il punto di partenza per rimettere in discussione la dottrina del Vaticano II. Certamente il messale di Pio V ha grandi ricchezze di fede, ma la riforma ha inteso accrescerle e non dissiparle. Trovo perciò fuorvianti certe letture che tendono a contrapporre i due riti, individuando nell’antico dei valori di fede che poi sono stati abbandonati. Un esempio lo si trova nell’intervista a un prete tradizionalista, messa on-line dall’agenzia Zenit, secondo il quale
Purtroppo si è venuta a creare la falsa equazione "partecipare attivamente = fare qualcosa": questa equazione non è un frutto del Vaticano II, ma è una eredità del giansenismo, che aveva anticipato in alcune forme liturgiche certe deviazioni oggi riproposte. la Grazia è prima di tutto una divinizzazione dell'uomo, qualcosa nell'ordine dell'"essere" più che nell'ordine del "fare", la preghiera deve essere intesa come un "lasciar fare a Dio"; come diceva la maestra delle novizie di S. Margherita Maria Alacoque, l'orazione è mettersi davanti al Signore come una tela sta davanti al pittore. L'antropologia teologica giansenista aveva distrutto l'idea di grazia santificante, di fatto riconoscendo solo "la grazia sufficiente", una caricatura della grazia, riguardante solo gli atti umani. Se dunque nella teologia della preghiera manca il primato della divinizzazione dell'uomo, il primato dell'opera divina, non si cerca più la "divina liturgia", ma resta solo una "liturgia umana", ovvero una liturgia dove tutti devono "fare" qualcosa. Ascoltare, contemplare in silenzio, attendere la grazia, pérdono - purtroppo - tutto il loro valore.
È un ragionamento che non sta in piedi. Se è falsa l’equazione “partecipare attivamente= fare qualcosa”, è falsa anche l’equazione “lasciar fare a Dio=rito di Pio V” o “contemplare=non fare”. Nel messale di Paolo VI il lasciar fare a Dio avviene valorizzando, secondo la vocazione propria di ciascuno, il sacerdozio universale di tutti i fedeli e non solo il sacerdozio del presidente. Così come è fuorviante presentare il messale di Paolo VI come il messale degli abusi. In questo modo, poi, si ignorano una serie di interrogativi seri che la situazione solleva e che sono stati presentati in un articolo di Enzo Bianchi che trovo assai appropriato:
Non è che questi gruppi si nascondano dietro i veli della ritualità post-tridentina per non accogliere altre realtà assunte oggi dalla chiesa, soprattutto attraverso il concilio? Il messale di Pio V non rischia di essere il portavoce di rivendicazioni di una situazione ecclesiale e sociale che oggi non esiste più? La messa di Pio V non è per molti una messa identitaria, preferenziale e dunque preferita rispetto a quella celebrata dagli altri fratelli, come se la liturgia di Paolo VI fosse mancante di elementi essenziali alla fede? C´è oggi troppa ricerca di segni identitari, troppo gusto per le cose "all´antica", soprattutto in certi intellettuali che si dicono non cattolici e non credenti e misconoscono il mistero liturgico. E ancora, perché alcuni giovani che non sono nati nell´epoca post-tridentina e non hanno mai praticato come loro messa "nativa" quella pre-conciliare, vogliono un messale sconosciuto? Cercano forse un messale lontano dal cuore ma praticato dalle labbra? E se la celebrazione della messa risponde alle sensibilità, ai gusti personali, allora nella chiesa non regna più l´ordo oggettivo, ma ci si abbandona a scelte soggettive dettate da emozioni del momento. Non c´è forse il rischio, in questo soggettivismo, di incoraggiare ciò che Benedetto XVI denuncia come obbedienza alla "dittatura del relativismo"?
E perché coloro che chiedono il rito di Pio V si sentono i "salvatori della chiesa romana"? Salvatori rispetto a cosa? A un concilio ecumenico presieduto dal vescovo di Roma?
Ci vorrebbe allora un nuovo movimento liturgico che faccia scoprire e valorizzare il messale di Paolo VI, rispondendo a certa propaganda che lo sta dipingendo come un rito di serie B, invece che come un legittimo progresso nella fedeltà alla tradizione.