Continua il dibattito su eutanasia e interruzione delle cure. Da un punto di vista cattolico, la questione consiste nel capire se la posizione assunta dalla CEI in seguito al caso Welby, ed espressa soprattutto dal card. Ruini e da Mons. Elio Sgreccia, sia l’unica possibile e ammissibile. Personalmente, sono convinto di no. Al centro del confronto c’è il testo, di grande risonanza, pubblicato dal card. Martini su Il Sole 24 Ore del 21 gennaio. Purtroppo, non sempre si è rimasti nei limiti di uno scambio pacato e costruttivo, ma si è anche cercato di screditare la persona dell’ex arcivescovo di Milano e le sue argomentazioni (v. il post Attacco a Martini). Anche di recente, si è cercato di contrapporre Martini e il Papa in base alle parole di quest’ultimo all’Angelus del 4 febbraio con l’asserzione che Benedetto XVI abbia voluto implicitamente sconfessare il cardinale (leggi questo post di Sandro Magister). Mi sembra una forzatura, perché nel testo di Martini non c’è nessuna giustificazione dell’eutanasia né affermazioni che fuoriescono dal magistero della Chiesa.
Il vero punto cruciale è la distinzione tra uccidere e lasciar morire nel caso di interruzione delle cure. La posizione attuale della CEI è piuttosto restrittiva, al punto da considerare la vicenda di Welby una vera e propria eutanasia. Però, in base ad argomentazioni che fanno parte dell’insegnamento della Chiesa si può ragionevolmente accettare una valutazione diversa. Interessante, in questo senso, la comunicazione dell’arcivescovo di Bordeaux, card. Jean-Pierre Ricard (nella foto) che è il Presidente della Conferenza Episcopale Francese (il Ruini d’Oltralpe, per intenderci) in occasione dell’approvazione della legge sui diritti dei malati alla fine della vita (13 aprile 2005). Egli la ritiene condivisibile negli obiettivi, anche se ne segnala delle ambiguità che dipendono da come i medici applicheranno concretamente la normativa. Infine, richiama una sua precedente dichiarazione:
Sarebbe, certo, irragionevole e inumano cercare di prolungare l’agonia; quando la morte è ineluttabile a breve scadenza, si dovrà accordare una totale priorità alla lotta contro la sofferenza e all’accompagnamento del malato. Ma, nelle altre situazioni, l’arresto del trattamento è compatibile con una vita più o meno lunga, a condizione che siano somministrate le cure necessarie. Può capitare allora che un malato rifiuti qualsiasi intervento sul suo corpo, a eccezione delle “cure di conforto”. I curanti non potranno che sottomettersi, dopo aver esaurito le risorse del dialogo. Negli altri casi, sarà conveniente mantenere le cure ordinarie e in particolare cercare il modo più adeguato di alimentare il malato o, quanto meno, di apportargli elementi nutritivi. Agire diversamente implicherebbe un disinteresse per il malato e addirittura, in certi casi, un effettivo abbandono. (Leggi il testo originale)
Dietro a questa posizione c’è la Dichiarazione sull’eutanasia (1980) della Congregazione per la dottrina della fede e l’insegnamento di Pio XII. Non si tratta perciò di affermazioni estemporanee, ma radicate nella Chiesa. Al centro ci sono l’accompagnamento umano e spirituale della persona malata e il suo sostegno in una relazione costante. In una situazione che diviene irrimediabile, ciò significa rispettare la sua volontà di interrompere le cure. Non si può stabilire a priori un principio universale che valga per tutte le situazioni. Quindi, si tratta di confrontarsi sui criteri orientativi e procedurali in base ai quali arrivare alla decisione sul caso singolo, mettendo in primo piano (pur senza assolutizzarla) la volontà del malato. In direzione analoga vanno anche altri episcopati, la linea sembra essere quella, una volta esaurite tutte le possibilità mediche e relazionali, di aiutare la persona nel morire, senza però aiutarla a morire. Ci vuole naturalmente un dibattito serio e meditato. Un contributo può venire dal Dossier eutanasia messo a disposizione in rete dalla rivista Aggiornamenti Sociali che nel numero di marzo pubblicherà un commento al testo di Martini scritto dal teologo Carlo Casalone.
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